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DA POTERE OPERAIO A LINEA DI CONDOTTA
I materiali che la rivista, in questo e nei successivi numeri, verrà presentando
configurano il tentativo di ricostituire una teoria unitaria della crisi
in corso dal punto di vista del rifiuto del lavoro salariato.
Teoria unitaria giacché non si dà «orientamento politico» nella crisi senza
evidenziare, per successive approssimazioni, il movimento delle categorie
- innanzitutto denaro, profitto, accumulazione, salario nel loro reciproco
interagire - come la contraddizione principale che rivoluziona ed intorbida
l'intero modo di produzione capitalistico. Certo la crisi non è solo
questo. C'è anche di mezzo l'anno santo e il deperire del messaggio
evangelico. Ma possedere il movimento delle categorie capitalistiche significa
possedere la tendenza, il nuovo equilibrio verso cui l'assetto capitalistico
marcia come risultato della sua propria autodinamica. Il dispiegarsi delle
contraddizioni muove il modo di produzione capitalistico verso un nuovo
equilibrio: ed in questo muoversi, e solo in esso, sta la soluzione che
il capitale da a quelle medesime contraddizioni.
Teoria unitaria della crisi significa, quindi, possesso della tendenza,
possesso della traiettoria del movimento del capitale e, quindi - in qualche
misura - anticipazione teorica dei comportamenti e del capitale e della
classe operaia in quanto capitale.
E tuttavia la teoria della crisi a cui questi materiali vogliono mettere
capo è una ricostruzione «di parte» della crisi - l'analisi assume coscientemente
un punto di vista determinato da cui guarda e per cui trasceglie i passaggi
significativi - all'interno di una congerie di problemi e di nessi tutti
di uguale rilievo ai fini di una ricostruzione «obiettiva» della crisi.
La «parzialità», come ormai tutti sanno, è il fondamento stesso del carattere
scientifico dell'analisi; giacché il punto di vista obiettivo non può
che risolversi, alla fine, in una dimensione tendenziosa e di parte ma cieca,
cioè «vissuta senza possesso»: come accade agli economisti.
Il punto di vista che questi materiali assumono è quello del rifiuto del
lavoro salariato, giacché è nella lotta contro il lavoro che l'idea-forza
del comunismo si è, negli anni '60, materializzata nelle masse operaie
divenendo «movimento reale».
Così si tratta di leggere questa crisi, nella sua dimensione internazionale,
come il manifestarsi della maturità del comunismo.
Una simile chiave interpretativa rifugge da qualsivoglia catastrofismo o
«tremendismo escatologico». Non «la fine dei tempi» del pensiero negativo
di parte capitalistica, ma il delinearsi della fine del modo di produzione
basato sul lavoro salariato, come possibilità che entra nell'orizzonte
pratico dell'iniziativa di parte operaia. Ecco allora, al di là della
fenomenologia svelarsi l'anatomia della crisi: i problemi, i nessi,
le contraddizioni, le aporie che, aggrovigliandosi e intrecciandosi, riducono
all'estenuazione la moderna economia politica, vengono a disporsi secondo
un ordine razionale, assumono una forma intelligibile quando sono investigati
dal pensiero operaio, che tutto legge e dispone in funzione delle possibilità
che si aprono alla prassi comunista.
Si badi: questo criterio eminentemente dialettico tendente a rintracciare
ed individuare in ogni passaggio della crisi la forma congrua d'azione
rivoluzionaria, è astralmente lontano da tutta la metafisica apocalittica;
quest'ultima, infatti, si limita ad «invocare» la crisi come forma naturale
che finalmente dirime per il meglio le contraddizioni sociali «premiando
i giusti e punendo i malvagi». Gli apocalittici, ipostatizzando la crisi
come «divinità buona», in realtà non ne investigano la specificità delle
diverse articolazioni, non ne rilevano la determinatezza dei passaggi, non
ne ricostruiscono con caparbietà e serietà il movimento complessivo. La
crisi inchiodata ad una dimensione di contraddizione generale e generica
tra forze produttive e rapporti di produzione si nega così ad una utilizzazione
materiale - è come guardare con partecipazione la traiettoria descritta
da una cometa.
Laddove ognuno vede che la crisi può offrire varchi rivoluzionari nella
misura in cui si dà il possesso dei soggetti reali nonché delle loro forme
di esistenza come si configurano, non nella dottrina del materialismo dialettico,
ma nella concretezza dello scontro sociale in corso.
Si tratta, quindi, di riconsiderare tutte le categorie della scienza della
rivoluzione operaia - in primo luogo la organizzazione della lotta armata,
il potere politico - per ricongiungerle qui ed ora per successive approssimazioni
ai protagonisti reali della crisi. Solo quando questo ricongiungimento è
avvenuto, quando le categorie politiche cessano di essere una «folla di
fantasmi» e diventano forme materiali a livello nazionale ed internazionale,
è possibile por mano alle iniziative soggettive, all'azione politica
intelligente che mira a liberare dentro ogni problema, dentro ogni passaggio
della crisi, la contraddizione tra tendenza capitalistica e comunismo come
movimento reale.
Ecco allora il contesto dentro cui calare, per evitare la vuota accademia
o lo sperimentalismo - inutilmente generoso perché impaziente - degli estremisti,
le questioni canoniche del movimento rivoluzionario operaio: il problema
del potere politico, il discorso sulla lotta armata, la teoria del partito.
Rintracciare, quindi, i protagonisti reali della crisi, ricostruire la loro
forma di esistenza è il primo banco di prova dei materiali che verremo presentando
in questo e nei successivi numeri. Del resto il lavoro politico di «Linea
di Condotta» ha come destinatari proprio alcuni dei protagonisti reali,
di parte operaia, dell'attuale crisi: innanzitutto l'area individuata
delle forme organizzate di lotta al lavoro salariato.
Noi riteniamo infatti che proprio dentro quest'area si dispiega - può
dispiegarsi - l'autonomia operaia in quanto soggettività politica; si
dà - può darsi - la costituzione di una avanguardia rivoluzionaria di massa
in quanto sezione egemone nella composizione politica di classe operaia;
s'impianta - può impiantarsi - l'esperienza organizzativa di partito
come strumento attraverso cui una sezione di classe imponendosi «una disciplina
ed un allineamento interno» materializza il proprio interesse sociale come
«volontà di potere politico».
Cerchiamo di chiarire. In prima approssimazione, possiamo ritenere che la
composizione politica di classe operaia abbia in Italia due articolazioni:
una sezione che vive la propria natura di classe operaia riconducendola
e rappresentandola come forza-lavoro, come lavoro salariato; ed una sezione
che è classe operaia perché è lotta contro il lavoro salariato, contro la
forma di «forza-lavoro». Ovviamente si tratta, a questo livello di approssimazione,
di una composizione politica che certo nasce e s'innerva in una composizione
tecnica di classe, ma non coincide ed equivale a questa.
In altri termini, la composizione politica è una funzione della lotta mentre
la composizione tecnica è funzione del processo lavorativo nonché delle
esigenze di valorizzazione.
Ora, lo scontro tra le classi in Italia è segnato dalla presenza, rilevabile
nella prassi sociale, di queste due anime di classe operaia. Entrambe, infatti,
si dispiegano in quanto soggettività agenti e s'applicano, vicendevolmente
intrecciandosi e contraddicendosi, al rapporto con il capitale.
Ma non c'è chi non veda quale squilibrio, sul terreno politico, corra
tra queste due anime.
Mentre infatti la classe operaia come lavoro salariato trova una sua rappresentazione
organizzativa definita ed articolata nel Movimento Operaio - rappresentazione
che le consente una egemonia politica generale sul proletariato - la sezione
di classe operaia che è lotta alla forma di forza-lavoro non ha alcuna autonomia
politica perché, essendo priva di dimensioni organizzative e progettuali
adeguate; è costretta a crescere applicandosi, tramite le condizioni oggettive
del processo produttivo - la famosa spontaneità o struttura interna -, alle
occasioni che la dinamica della forza-lavoro nel suo relazionarsi al capitale
le offre; essa vive quindi di esistenza subalterna che la fa partecipe delle
sconfitte del lavoro salariato senza consentirle, d'altro canto, di
utilizzarne significativamente le vittorie.
La conquista dell'autonomia politica è quindi oggi il tema fondamentale
per questa sezione di classe - perché senza autonomia politica ogni disegno
di egemonia sul proletariato e di dittatura sull'intera società civile
è destituito di fondamento.
Ma la conquista dell'autonomia politica è, come i successivi numeri
di questa rivista verranno argomentando, costruzione del partito come unico
strumento adeguato alla dimensione progettuale, come passaggio obbligato
per liberare l'iniziativa rivoluzionaria operaia dalla dimensione tutta
interna alla produzione.
Quando diciamo che questi materiali, e ancor più il lavoro politico, il
nuovo terreno e le nuove forme di iniziativa che andiamo a promuovere, hanno
come destinatarie le esperienze di lotta al lavoro salariato in quanto potenziali
momenti di autonomia politica, intendiamo riferirci ad un concetto di autonomia
operaia propriamente comunista: l'autonomia operaia si dà non in quanto
interdipendenza conflittuale con il capitale - né tanto meno come semplice
cessazione del rapporto produttivo; l'autonomia operaia è la relazione
negativa, potenzialmente distruttiva, deliberatamente ricercata e praticata,
con il capitale.
Ecco allora che un primo passaggio di questa conquista dell'autonomia
politica da parte della sezione di classe che si nega come forza-lavoro,
è l'individuazione dei canali specifici attraverso cui le esperienze
organizzative di lotta al lavoro possono porsi come punti di riferimento,
possono tramutarsi in direzione politica, possono contare sui comportamenti
complessivi di classe.
In questa fase, cioè, la lotta rivoluzionaria è prima di tutto lotta all'interno
della classe operaia per arginare, battere e liquidare il mostro sacro dell'«unità
di classe»; giacché «unità di classe» significa, oggi, l'oggettiva unità
del lavoro salariato, il suo funzionare come fondamento strategico di ogni
possibile riconversione produttiva capitalistica; significa, in ultima analisi,
comando riformista sul comportamento di classe operaia.
Dentro le lotte operaie di questi anni si è andato formando un personale
politico operaio la cui origine affonda dentro il movimento della lotta
al lavoro.
Si tratta di spezzare il bozzolo estremista dentro cui questo personale
è cresciuto - bozzolo che lo inchioda alla autonomia come cessazione del
rapporto col capitale e quindi a forme d'azione radicali ed impotenti.
Testimonianza più che esperienza politica. Si tratta di mettere in contatto
questo personale con le forme organizzative che dirigono l'intera prassi
sociale operaia, perché il carattere profondamente nuovo di questo personale
politico possa contare, possa valere come riferimento di direzione alternativo
alla tematica riformista.
La lotta al lavoro può vincere solo se conquista per sé l'egemonia sulla
classe operaia. Da qui la necessità del contatto tra nuovo «ceto politico
operaio» e forme che, realmente, assolvono funzioni di comando sui comportamenti
di classe operaia. Da qui l'urgenza di un incontro tra «delegati» ed
«operai estremisti» come possibilità di far funzionare come complementari
alcune qualità proprie dell'uno e dell'altro tessuto di quadri.
Gli «estremisti» hanno infatti rappresentato in questi anni un livello politico
più alto e più maturo - e d'altra parte questo loro stesso rappresentare
univocamente la possibilità rivoluzionaria che vive dentro l'«universo
operaio» ha conosciuto una effettiva difficoltà di rappresentazione della
«socialità» del comportamento operaio; i delegati hanno invece avuto un
ruolo politico più ambiguo, legato a un percorso rivendicativo di lotte
e a una forma «sociale», non ancora politica, di potere operaio - epperò
hanno rappresentato il carattere socialmente maggioritario ed egemone della
lotta operaia, il funzionare della lotta salariale come ipoteca politica
sugli equilibri interni del sistema e sulla capacità capitalistica di esprimere
comando sociale.
È questa autorità sociale «naturale» che gli operai della lotta al lavoro,
della rivoluzione comunista, devono conquistare.
Occorre avere la lucida consapevolezza che la crisi lavora a favore di un
allentamento della presa riformista sulla classe operaia e di una significanza
di massa degli obiettivi e delle pulsioni per cui si sono mossi gli «operai
estremisti».
Negli anni passati, il problema è stato mettere continuamente in luce la
sostanziale unitarietà di un comportamento di classe che sfuggiva, nel suo
complesso, al controllo delle istituzioni del movimento operaio. Allora
l'analisi esprimeva l'indiscussa egemonia che il «partito operaio
della crisi» imponeva sul comportamento operaio utilizzando i mille canali
che l'autonomia aveva svelato all'interno di tutta la classe.
Oggi, la crisi rompe questa egemonia, distrugge i canali di comunicazione
delle lotte che si socializzavano a partire dalle fabbriche dei poli. L'unità
di classe è spezzata e può ricomporsi solo dentro l'iniziativa di partito.
In questa fase la guerra di classe si sta giocando ancora all'interno
della classe operaia.
Guerra di classe per il partito: questa indicazione fonda e legittima la
scienza dell'organizzazione come problema all'ordine del giorno.
Lo abbiamo detto: solo i riformisti possono parlare di unità di classe in
questa fase. È chiaro che solo chi vede e ha sempre visto la classe operaia
come un'entità astratta e categoriale - interna ai confini del sistema
produttivo capitalistico, come un'articolazione equilibrante dello sviluppo
del capitale inteso come unico sviluppo sociale possibile - può rivendicare
l'eterna unità ed omogeneità degli operai. Ma è l'unità al livello
più basso. È l'oggettiva unità del lavoro subalterno sfruttato comunque.
Ed essa può giocare un suo ruolo sempre e solo come tale. Per i riformisti
la classe operaia esisterà sempre, ma in particolar modo quando l'iniziativa
del nemico di classe si appresta ad attaccare per distruggere quella forma
«particolare» di classe operaia che nega una possibilità di un suo uso sociale
dentro il capitale.
L'attuale fase della crisi è caratterizzata dalla necessità capitalistica
di svalutare politicamente la potenza sociale del lavoro combinato che si
è andata trasformando dentro la nuova composizione politica operaia in comando
operaio contro il lavoro. La recessione guidata è la strada obbligata per
reimporre la separazione antagonistica tra fabbrica e società.
L'obiettivo immediato è chiaro: imporre alla classe la richiesta di
lavoro come difesa della propria esistenza sociale e politica. Ridare al
«ceto operaio riformista» il comando sui comportamenti di classe. L'unica
possibilità di ricostruire di fronte al partito operaio del rifiuto del
lavoro un partito operaio del lavoro, sta nella capacità d'imporre violentemente
una domanda operaia di lavoro, perché il lavoro è l'unico terreno su
cui il capitale accetta di contrattare la distribuzione tra le classi della
ricchezza sociale. Questa fase matura il problema del partito come organizzazione
politico-militare d'attacco del quadro dell'autonomia.
Per questo referente di classe la crisi distrugge l'ultima parvenza
oggettiva dietro cui si nascondeva il rapporto salariale. Il reddito operaio
assume continuamente la diversa forma di sa-lario, integrazione salari,
sussidio e ancora salario. Salta l'ultimo tenue legame tra lavoro come
specifica funzione valorizzante e salario. Ancora di più, l'aumento
dei prezzi, dei servizi, delle tasse, sposta il piano dello scontro per
l'appropriazione dal comando di fabbrica del padrone al comando sociale
dello Stato.
Lo Stato si isola di fronte alla lotta operaia come potere non più legittimato
dalla mediazione produttiva nella distribuzione sociale della ricchezza.
Il movimento comunista degli operai pone apertamente l'esigenza del
partito, dell'organizzazione politica armata capace di aprire un'offensiva
contro lo Stato.
È su questa base che può avvenire il rimescolamento delle carte nella direzione
di massa della classe operaia; è su questa base che può maturare una nuova
generazione di quadri operai che possa dare battaglia per affermare l'egemonia,
la dittatura politica del settore operaio che punta a negarsi come lavoro
salariato, come merce.
Un discorso di questa natura sul referente del processo organizzativo rinvia
a una analisi più puntuale della situazione del movimento.
La critica del movimento di massa, come uno degli elementi che fonda la
possibilità di elaborare e praticare - dentro gli orizzonti strategici che
oggi il movimento indica - una scienza dell'organizzazione operaia comunista,
costituisce uno dei fili conduttori del nostro lavoro. Di qui bisogna partire,
per non restare imprigionati dentro un discorso - che pure è il punto d'avvio
e di qualificazione della nostra esperienza - di lettura della tendenza
e di interpretazione del rapporto fra livello dell'autonomia e crisi
«strategica» capitalistica come possibilità pratica di affermazione della
maturità del comunismo, cioè dell'attualità di un processo di riorganizzazione
del movimento e del suo strato di avanguardia comunista nella forma di un
movimento generale di riappropriazione, nella forma del potere operaio,
nella forma dello sviluppo della guerra civile per la distruzione del sistema
del lavoro salariato e della produzione di merci su comando.
Critica del movimento di massa, dunque, come fondazione di una capacità,
propria dell'organizzazione, di non seguirne la necessaria gradualità
e il carattere processuale, ma di trasceglierne alcuni aspetti, di privilegiarli
e di piegarli a un esercizio di volontà intelligente e preordinata: questo
atteggiamento non si fonda, per noi, su una mistica dell'organizzazione
come pura e arbitraria soggettività, su una riaffermazione ideologica e
di principio del carattere distinto dell'organizzazione dai movimenti
materiali della classe e dai suoi comportamenti sociali. Tant'è vero
che diciamo - marxianamente - critica, esprimendo così un fortissimo legame
- ma dialettico - con resistenza spontanea del movimento e delle sue forme
immediate d'organizzazione.
Questo punto di vista, questa assunzione critica del movimento ha - come
abbiamo già accennato in questo stesso articolo - le sue radici nel riconoscimento
dell'esistenza duplice di classe operaia - come classe in sé e classe
per sé, forza-lavoro e classe politica, articolazione del capitale e possibilità
rivoluzionaria della sua distruzione e superamento.
Parte cioè dall'individuazione della necessità di organizzare - per
dirla in termini soggettivi - «lotta tra le due linee» all'interno della
classe operaia; cioè lotta politica esplicitamente rivolta ad evidenziare
ed imporre come egemone la faccia sovversiva, rivoluzionaria del comportamento
di classe, a far prevalere il partito della lotta al lavoro sul partito
del lavoro.
È attorno a questo nodo teorico e politico che trova origine tanta parte
del nostro discorso sul movimento e sull'organizzazione. Sappiamo bene
che attorno a questo nodo sono possibili due posizioni diametralmente opposte,
entrambe schematiche.
La prima - che vede il partito come immanente alla classe e afferma il carattere
immediatamente politico, rivoluzionario dei movimenti di classe - muove
da una considerazione secondo cui la progressiva caduta della barriera del
valore elimina la radice sociale del riformismo operaio e conforma lo Stato
capitalistico da una parte e la classe operaia dall'altra a un ruolo
di puri soggetti politici contrapposti, «liberati» dal funzionamento oggettivo
delle leggi dell'economia politica. Di conseguenza, questa posizione
vede il riformismo come la nuova forma dello Stato, la nuova figura del
comando sociale del capitale, sempre più connotato come istituzione di comando
e di repressione dell'esistenza politica di classe, e sempre meno come
istituto di difesa della forza-lavoro in quanto appendice subalterna del
capitale (e in quanto tale funzionante come articolazione dello Stato capitalistico,
come istituto preposto alla determinazione e al rispetto delle compatibilità,
alla gestione delle proporzioni determinate, al governo della conflittualità).
La seconda deviazione è - a nostro avviso - quella che, per incapacità di
leggere la tendenza e di tener conto di questo processo tendenziale di estinzione
delle categorie economiche, vede il riformismo come una faccia permanente,
ineliminabile dell'esistenza di classe, come una sorta di «fenomeno
naturale» da guardare con rispetto. E dunque vede il riformismo del Movimento
Operaio come una rappresentazione politica del riformismo operaio, inteso
come un aspetto ineliminabile dell'esistenza di classe, che perpetuamente
si riproduce, indipendentemente dalle condizioni strutturali della sua legittimità.
Noi riteniamo invece corretto applicare alla questione del riformismo operaio
lo stesso tipo di approccio politico che si ha nell'affrontare la questione
dell'estinzione dello Stato. Qui, come lì, qualsiasi posizione che si
limiti a leggere la tendenza e la assuma come fenomeno naturale, accontentandosi
di questo possesso teorico della prospettiva strategica, delle leggi del
movimento storico - si rivela opportunista.
Questo non è uno schema teorico: nella materialità della lotta politica
si traduce in iniziativa, in lotta per far prevalere un programma e non
un altro, un modello di comportamenti di lotta e non un altro, uno strato
operaio e non un altro, una forma d'organizzazione e non un'altra.
E tutto questo significa lotta politica, lotta per l'organizzazione.
Rispetto a tutto questo il rapporto fra iniziativa soggettiva e lettura
della tendenza diventa decisivo.
Ecco: assunzione critica del movimento e affermazione del carattere distinto
del partito nascono per noi dal rapporto che c'è fra comprensione della
tendenza, del suo farsi reale dentro i meccanismi di funzionamento della
società del capitale, il suo dispiegarsi nella composizione politica di
classe - e coscienza della sua non-inevitabilità (almeno entro un arco storico
determinato, e non nel millennio); e dunque della necessità di predisporre
tutti gli specifici strumenti politici per renderne possibile l'affermazione.
Questo è il terreno della lotta politica di classe: il carattere distruttivo
della rivoluzione sta nella distruzione delle condizioni che permettono
la riproduzione di classe operaia - la rivoluzione è cioè un processo che
distrugge la classe operaia in quanto lavoro sussunto dal capitale, cioè
radice del dominio capitalistico.
In questo senso va riletto il discorso sul rapporto fra autonomia politica
e organizzazione operaia, fra composizione politica di classe e soggettività
di partito. Perché il livello presente dell'autonomia fonda il processo
storico del comunismo, e ne contiene in sé la qualità strategica in forma
di embrione (la riappropriazione della ricchezza sociale, la distruzione
della schiavitù del lavoro salariato, la liberazione di una enorme intelligenza
produttiva e dunque la libertà dal bisogno, l'estinzione dello stato)
ma è l'organizzazione politica, soggettiva di classe appuntata alla
distruzione della macchina dello Stato e tesa ad assicurare le condizioni
di esercizio della dittatura operaia che invera questa prospettiva strategica
in una prospettiva storicamente determinata - e non millenaria -, e la traduce
in processo di reale distruzione del modo di produzione capitalistico e
di attualizzazione della potenzialità di potere che resistenza indipendente
del movimento delle lotte contiene. L'organizzazione comunista è in
questo senso uno strumento adeguato ai compiti di soppressione della macchina
dello Stato, come anticipazione cosciente della sua estinzione; uno strumento
adeguato ai compiti di dittatura come anticipazione cosciente del dispiegamento
di una infinita potenza sociale. Il partito si presenta come macchina politica
e armata, consapevolmente modellata sulla macchina politica e armata delle
istituzioni del comando capitalistico piuttosto che sulla qualità nuova
della composizione politica di classe, che pure è l'unica fonte, l'unica
radice della sua legittimità. In questo senso, davvero, la forma del Partito
non può essere una rappresentazione, una traduzione organizzativa della
maturità del comunismo, ma una figura adeguata ai compiti di distruzione
e di dittatura che la maturità del comunismo pone all'ordine del giorno.
Se la rivoluzione è tendenza storica costretta a confrontarsi nel movimento
reale delle cose con altre tendenze ad essa estranee e nemiche, il partito
deve esserne possesso cosciente, intelligente in termini di progetto, e
capacità di sua traduzione in forza materiale. Il suo destino si risolve
nella capacità di comandare i comportamenti di classe, stravolgendone la
spontaneità per indirizzare e concentrare la volontà del movimento in quei
punti della macchina capitalistica denunciati dall'analisi scientifica
come decisivi ai fini della distruzione del dominio. In questo senso, l'azione
politica organizzata deve recidere i legami tra Stato in quanto capitale
collettivo e stratificazione complessa del lavoro sociale, riducendo via
via lo Stato a pura e perversa figura di dominio, e riorganizzando l'intero
proletariato sotto l'egemonia operaia, come movimento comunista in atto.
Ecco, questa specifica dimensione progettuale e questa specifica funzione
di possesso del programma e di capacità distruttiva non è per noi immanente
alla nuova composizione politica di classe che si va formando, che pure
contiene in sé - come qualità e potenzialità politica - la distruzione del
lavoro salariato, la volontà di comunismo, la tendenza alla guerra di classe.
In questo senso diciamo «critica del movimento», in questo senso diciamo
«lotta per l'organizzazione» - cioè neghiamo che esista oggi, in alcuna
forma, un'esistenza data di partito, anche se embrionale.
A questo nesso critica del movimento/lotta per l'organizzazione si oppongono
- lo abbiamo già accennato - posizioni diverse, il cui denominatore comune
è la liturgica accettazione del movimento e la conseguente rinuncia alla
lotta per l'organizzazione. In queste posizioni, soggettivismo «emmellista»
ed oggettivismo «economicista» si giustappongono, si intrecciano, si scambiano
le parti in un impotente balletto fra speculari e alterni schematismi. Da
una parte (è il massimo di oggettivismo o il massimo di soggettivismo?)
s'identifica il movimento con una tendenza che vive al suo interno e
- poiché si negano i compiti pratici, lo spessore d'iniziativa per affermare
l'egemonia politica di questa tendenza e dello strato di classe che
ne è portatore sull'interezza dei movimenti di lotta del proletariato
- si rimuove il problema dell'organizzazione, cioè della conquista di
una direzione rivoluzionaria sul movimento. Ipostatizzando un'esistenza
permanente della classe operaia come «classe per sé», questa posizione nega
praticamente e teoricamente tutto lo spessore dell'azione organizzata.
Vedendo l'autonomia non come «il terreno che fonda» un processo di partito
e un movimento rivoluzionario che esprima una aperta ipoteca di potere,
- ma come la «forma finalmente scoperta dell'organizzazione politica
di classe nella fase dell'attualità del comunismo», sostanzialmente
limita i compiti soggettivi d'organizzazione a una pura registrazione
notarile delle punte alte della spontaneità che vive e guida il movimento
reale, o a una pura interpretazione soggettiva, arbitraria dei compiti di
macchina organizzativa «sensu strictu», direttamente funzione di un potere
sociale visto come dispiegato, compatto, politicamente esplicitato in modo
compiuto.
Dall'altra parte (è il massimo di soggettivismo o il massimo di oggettivismo?)
si legge il movimento come è, nell'universo dei suoi comportamenti e
nella presente egemonia sociale di un comportamento difensivo e interno,
al capitale (la lotta per il lavoro); ci si identifica con questa tendenza
e si fonda l'organizzazione sull'ideologia rivoluzionaria, in felice
congiuntura con gli spazi aperti dal precipitoso abbandono del terreno di
classe da parte dei riformisti.
La deviazione «soggettivistica» di matrice m-1 - che ha sempre negato carattere
politico ai formidabili movimenti materiali di classe maturati sul salario
negli anni '60, che addirittura non vedeva, negava rabbiosamente l'esistenza
della autonomia e dunque sganciava un terreno di partito da questo legame
con i bisogni, con i movimenti politici di classe - oggi (con una apparente
contraddizione ma con una più profonda continuità) scopre «l'autonomia»,
«la lotta operaia» e la assume in blocco, con un neo-oggettivismo grossolano
che attribuisce carattere politico a tutto l'universo sociale del comportamento
di classe.
Mancando di una comprensione teorica del ciclo e della crisi, questa posizione
scopre oggi troppo tardi il valore politico della lotta rivendicativa ed
in particolare del salario; cioè diventa oggettivista, economicista e spontaneista
proprio quando è necessario il contrario, perché nella crisi è necessario
fare il discorso sul partito, sul carattere non immediatamente politico
dei movimenti di classe, non necessariamente eversivo dei bisogni sociali
espressi dal proletariato; sul potere politico come unico obiettivo unificante
del proletariato. Senza una chiarezza sul ciclo, sulle peculiarità della
lotta dentro e contro lo sviluppo e dentro e contro la crisi, non si capisce
perché allora, alla fine degli anni '60, fosse giusto scoprire ed esaltare
il carattere politico della lotta sul salario, esaltare l'unità di classe,
la violenza spontanea degli operai, la proletarizzazione di tutto il lavoro
dipendente, portare allo scoperto l'autonomia, privilegiare la lettura
della spontaneità e l'organizzazione del movimento, e oggi sia giusto
sottolineare proprio il contrario, leggere le divisioni dentro la classe,
scoprire e mettere in luce il limite strategico della lotta di massa, la
miseria del suo carattere rivendicativo che nella crisi la fa vivere inevitabilmente
«dentro il ventre del capitale».
È che ieri l'occhio era puntato all'iniziativa capitalistica, alla
fase alta del ciclo, e dunque si trattava di scoprire dentro i bisogni e
i movimenti materiali di classe l'arma offensiva da scagliare contro
il piano del capitale, la sua coordinazione internazionale, la sua «scienza
delle proporzioni determinate»; mentre oggi si tratta di porre il problema
della ricostruzione soggettiva, per via organizzata, del carattere offensivo
del comportamento di classe, di una sua reale indipendenza, di una autonomia
che - o è progetto organizzato e armato di potere, di rovesciamento delle
regole di funzionamento dell'economia, della società, delle istituzioni
del capitale, o non è.
Chi non ha capito il nesso che doveva vivere a suo tempo - lotta autonoma
salariale contro lo sviluppo -, e quello che deve vivere oggi - partito
comunista armato per il potere proletario contro la crisi -, si stupisce
di questo apparente rovesciamento del teorema (di questo evidenziare - ieri
la forza, oggi la miseria della lotta rivendicativa; ieri il salario, oggi
il potere; ieri il movimento, oggi il programma; ieri l'unità di classe,
oggi la lotta tra le due linee; ieri la spontaneità, oggi la soggettività
e l'armamento; ieri l'anarchia dei comportamenti operai di guerra
al lavoro, oggi la stratificazione, l'istituzionalizzazione di un comportamento
operaio illegale che si esprima come ipoteca diretta di potere, come processo
di estinzione del diritto e di fondazione di una nuova autorità proletaria;
ieri la ricomposizione spontanea, la circolazione delle lotte, la violenza
operaia, oggi la necessità dell'organizzazione operaia armata). Ma chi
si fa scandalo di questo «rovesciamento», non ha capito nulla delle leggi
di movimento della classe operaia e del capitale.
Questo nuovo terreno d'iniziativa e di linea politica rinvia - necessariamente
- ad un nuovo livello dell'analisi: il passaggio dal terreno dell'autonomia
al terreno del potere, la possibilità pratica di aprire nel vivo dello scontro
sociale una prospettiva di guerra civile rivoluzionaria, impongono il superamento
di una faccia puramente negativa della teoria di classe. È vero, infatti,
che non esiste un esempio di estensione sociale di un comportamento armato,
fino a diventare processo in atto di «guerra civile», al di fuori di una
legittimazione che a questo comportamento può venir fornita dall'esistenza
di una duplicità di poteri, dal fatto che viva un potere sociale costituito,
parzialmente istituzionalizzato, realmente esercitato e riconosciuto all'interno
del conflitto fra le forze sociali. E questo potere può fondarsi solo su
alcune linee di programma «positivo», su alcune direttrici di organizzazione
sul terreno della «produzione» e dell'organizzazione sociale - cioè
di un modello di determinazione e soddisfazione dei bisogni sociali, liberati
dalla forma e dalla misura fissati dal sistema capitalistico. E tutto questo,
senza per nulla indulgere ad alcuna tentazione modellistica o prefigurativa,
tenuto conto del fatto che la questione rivoluzionaria si pone oggi, nella
metropoli capitalistica, su scala internazionale e con una portata senza
precedenti.
Da questo punto di vista, siamo appena agli inizi: il massimo della previsione
teorica arriva solo a descrivere i nuovi processi di ricomposizione di classe
da una parte - di ristrutturazione multinazionale dello Stato dall'altra:
in una parola, le nuove dimensioni del conflitto.
Si tratta, praticamente, di andare oltre, di cominciare a costruire una
«teoria generale» di parte operaia; una previsione strategica sul processo
della rivoluzione comunista in un'area internazionale. Si tratta di
mettere in moto delle esperienze di organizzazione che ne costituiscano
la prima significativa esemplificazione, avendo coscienza del fatto che
un progredire reale del processo rivoluzionario comporterà - dovrà comportare
- un sommovimento nella composizione politica del proletariato internazionale,
una modificazione profonda della fisionomia politica della classe operaia
in Europa, tale da rendere qualitativamente maggioritaria la scelta di un
comportamento di guerra, di lotta per l'affermazione del potere operaio
inteso come imposizione dei bisogni di classe, fuori, contro le regole della
formazione economica-sociale capitalistica; inteso dunque non come gestione
operaia del modo di produzione capitalistico, ma come processo della sua
distruzione e superamento.
Tutto questo non sarà - è stato detto - senza il massimo di violenza. Ma
la violenza sociale resta un livello nuovo del conflitto, non un processo
rivoluzionario in atto, se non è sostenuta da un progetto soggettivo, organizzato,
che punti al potere politico. È d'altra parte un'iniziativa armata
soggettiva, che si attesta su un terreno di scontro fra organizzazione e
Stato, è altrettanto perdente, nella misura in cui non contiene al suo interno
il germe della sua capacità di riproduzione, generalizzazione, estensione.
La rivoluzione operaia, la guerra di classe, è infatti da un lato resa possibile
dall'esistenza di nuclei organizzati in grado di determinarla, di aprire
la strada, di promuoverla e di prefigurarne la direziono, dall'altro
dal fatto di contenere i germi della sua moltiplicazione, della sua capacità
di trasformarsi in movimento.
La nostra «lettura» della crisi non può dunque prescindere da un discorso
sull'organizzazione. Altrimenti la tematica dell'attualità del comunismo
rischia di divenire un'assunzione categoriale e distorta. In questo
senso, solo la chiarezza sul fatto che un movimento comunista di classe
può darsi soltanto a partire dalla capacità di promuoverlo, di costruirne
tutti gli elementi di direzione di partito, è in grado di impedire una lettura
oggettivista e gradualista di questa tematica (cioè una lettura che nega
il problema della dittatura operaia; che dimentica il carattere di dominio
sociale di un ceto su tutta la società, che ha il capitalismo; che individua
lo Stato come mera espressione passiva dei rapporti di produzione vigenti).
Il crollo della legge del valore, conseguente all'enorme base materiale
accumulata dal lavoro umano, apre la crisi del fondamento di legittimazione
del dominio capitalistico basato sull'espropriazione dell'energia
umana come forma di organizzazione della società. Questa crisi è segno della
maturità del comunismo. Ma dentro questa crisi si svela l'altra natura
del capitalismo: la volontà organizzata di dominio del ceto capitalista,
la sua macchina del potere e la sua capacità d'iniziativa.
Qui rischia di perdere legittimità sociale quel potere operaio che è stato
e continua ad essere espressione della rottura - in un punto del sistema
produttivo - dei limiti di compatibilità del comando capitalistico sulla
forza-lavoro, se non conquista il terreno ultimo del potere: il terreno
della costruzione del partito come funzione svelata della dittatura operaia.
Il punto di vista operaio nella crisi diventa esterno alle leggi di funzionamento
del capitale; le utilizza come dimensione tattica della propria iniziativa.
La sua strategia non può che essere il partito-funzione della presa del
potere. Da una parte la capacità di cogliere, prevedere, anticipare volta
per volta le strettoie e le contraddizioni dell'iniziativa del nemico
di classe, dall'altra la scienza dell'organizzazione che raccoglie
in termini di programma i piccoli passi sul nuovo terreno di conquista.
Scienza dell'organizzazione e lettura tattica della crisi: il ribaltamento
cosciente del punto di vista operaio.
Critica del movimento e lotta per l'organizzazione: premesse teoriche
e conseguenze pratiche di questo punto di vista rinviano alle questioni
del programma e della teoria dell'organizzazione.
Del programma di massa si comincia a parlare in questo stesso numero della
rivista, facendo riferimento alla prima determinazione che nei mesi passati
ha avuto un programma di «ricchezza in mano agli operai» (cioè un programma
dei prezzi politici): l'autoriduzione come forma - minimale ma socialmente
diffusa - di riappropriazione.
Al dibattito sul tema della teoria dell'organizzazione - che si è sviluppato
per noi nei mesi scorsi come tema centrale della discussione - sarà dedicato
il secondo numero di Linea di condotta. Per questo è giusto limitarsi ora
ad accennare solo incidentalmente ad alcune coordinate fondamentali che
connotano un nuovo discorso teorico-pratico sull'organizzazione operaia
comunista.
Noi pensiamo che debba essere elemento caratterizzante di un processo organizzativo
correttamente inteso la dialettica fra soggettività di partito e nuovo terreno
di movimento.
Se l'affermarsi di una «illegalità operaia di massa» che è già non più
solo rivendicazione, ma affermazione esplicita di potere, evidenzia la possibilità
strategica di un'esistenza di classe non più simbiotica col modo di
produzione capitalistico, ma da esso liberata e indipendente, resa «comunismo
in atto» - la rete dei quadri comunisti operai «di partito» deve rappresentare
l'esplicitazione diretta, univoca di questa possibilità rivoluzionaria,
di questa esistenza di classe operaia come rivoluzione e come potere nuovo
che si dispiega e distrugge le condizioni capitalistiche del produrre.
Questo vuoi dire da un lato enucleare ed evidenziare la possibilità di un
comportamento operaio di massa che faccia vivere già oggi la tendenza al
potere e al comunismo - dall'altro proporsi di riesprimere questa qualità
comunista traducendola in forza materiale d'organizzazione, di programma,
di capacità offensiva.
Si tratta di vedere la «lotta per l'organizzazione» non in termini di
battaglia per l'egemonia di una componente già data, all'interno
di un processo di partito. Perché un processo di partito possa dirsi veramente
tale, è necessario infatti che esso avvenga dentro un terreno significativo
di movimento, dentro una qualità avanzata di lotte, - e al tempo stesso
che si misuri su problemi di direzione di questo movimento (non nel senso
tecnico, di semplice possesso di alcuni elementi che riguardano lo sviluppo,
la determinazione dei meccanismi interni, la decisione e la stessa «gestione»
della lotta, ma nel senso del possesso del suo orizzonte strategico e degli
strumenti che ad esso adeguino il terreno della tattica, rendendo i movimenti
delle lotte congrui al disegno soggettivo che interpreta e traduce in progetto
la tendenza).
Si tratta oggi di avere coscienza del fatto, che occorre dar luogo a forme
transitorie d'organizzazione, che si caratterizzano come componenti
organizzate di un più generale processo di decantazione, omogeneizzazione
e centralizzazione di un'«area» di partito che emerge dalla verifica
che il percorso organizzativo dell'autonomia operaia ha svolto dentro
la rete delle avanguardie.
Noi vogliamo essere una componente organizzata di quest'«area» - senza
nessuna dimissione di identità, senza venir meno ai criteri di omogeneità,
di centralizzazione, di rappresentazione di un progetto strategico univoco,
ma sottolineando in modo netto il carattere transitorio di tutta la prossima
fase del processo organizzativo, e la necessità di farsi elemento di promozione
di un ben altrimenti ampio e significativo processo di partito.
Da questo punto di vista, il superamento critico, irrevocabile dell'esperienza
di «gruppo» è dato come conseguenza necessaria della crescita politica e
organizzativa del movimento.
I «gruppi» sono stati il sintomo della nuova proletarizzazione determinata
dalla lotta operaia autonoma: oggi sono forzati a scegliere di organizzare
la loro estinzione dentro un processo organizzativo di tipo nuovo, che punta
a promuovere la costruzione di una rete operaia «di partito» - oppure possono
solo vivere l'alternativa fra istituzionalizzazione e radicalizzazione
«estremista». Ciò condannarsi da soli a godere il frutto marginale del «mondo
della politica», oppure rendersi interpreti coerenti di un'area sociale
e dei suoi comportamenti irregolari e sovversivi, senza porsi il problema
di uscire dal ghetto dell'«autonomia» intesa come esistenza separata,
come comportamento che può convivere con la direzione riformista del movimento,
- e di riproporla come processo distruttivo e alternativa «totale», le cui
forme organizzate puntino alla conquista del governo sui movimenti di classe
come condizione di un progetto di dittatura operaia.
Ora, dopo un lungo processo di riflessione, di confronto politico fra ipotesi
diverse che sono andate emergendo sul terreno della teoria e della prassi
dell'organizzazione rivoluzionaria, ci sembra che una serie di elementi
propositivi possano essere affidati all'«area» di avanguardie interessata
a promuovere un processo di partito.
Definirsi, assumere un'identità adeguata al livello attuale dello scontro,
del movimento, dell'iniziativa, per portare avanti - dentro le forme
organizzate d'unità d'azione delle avanguardie comuniste cresciute
sul terreno dell'autonomia e oggi proiettate a conquistare il terreno
del potere - la nostra battaglia per l'organizzazione operaia comunista.
Da «Linea di Condotta», n. 1, Milano 1975
Le pagine che seguono rappresentano un primo contributo scritto di un gruppo
di compagni militanti di Lotta continua al dibattito della nostra organizzazione.
Questi compagni intendono farsi promotori di una corrente per il congresso
nazionale.
Queste pagine contengono (in modo ancora poco articolato) critiche di fondo
alla linea politica della nostra organizzazione, alle scelte che essa ha
compiuto nel suo rapporto con l'autonomia operaia, con la nuova soggettività
operaia dentro la crisi.
Pensiamo che questi elementi vadano arricchiti, estesi, precisati e criticati
con il dibattito politico di tutti i compagni.
Sulle contraddizioni dell'imperialismo
Ci sembra che sia mancata la capacità di far scendere nel vivo dello scontro
sociale in atto le analisi delle contraddizioni dell'imperialismo. Secondo
noi l'analisi non deve essere solo un problema di studio finalizzato
al lancio di parole d'ordine anti-atlantiche.
L'analisi deve essere utile per una maggiore comprensione della portata
eccezionalmente vasta di questa crisi, per inquadrare meglio il nostro ruolo
di avanguardia. L'Italia è la zona dove si sono scaricate più forti
che altrove le contraddizioni della politica imperialistica mondiale.
Tra i paesi europei l'Italia è il paese più in crisi di tutti: perché?
Se già prima la ristrutturazione aveva colpito certi settori che vivevano
sulle esportazioni (elettrodomestici, tessili ecc.) la necessità di creare
delle imprese multinazionali in grado di reggere la competizione sul mercato
mondiale ha portato lo Stato italiano a favorire e finanziare la concentrazione
e la ristrutturazione in certi settori: l'esempio più clamoroso è la
Montedison.
Nel 1980 noi consumeremo più petrolio come materia prima per far funzionare
le fabbriche di chimica pesante che come combustibile per le auto. Ciò significa
che da noi le importazioni di petrolio non si possono ridurre a piacimento
con misure di austerità, razionamento ecc. Questo ha avuto l'effetto
di ingigantire le conseguenze dell'aumento dei prezzi del petrolio.
L'Italia si è trovata di fronte a un deficit nella bilancia dei pagamenti
tale che ha dovuto ricorrere a prestiti internazionali per poter tirare
avanti. Le condizioni poste da chi ha fornito il prestito (il Fmi dominato
dagli USA) hanno determinato la 1a crisi del governo Rumor.
Le misure che la Banca d'Italia ha deciso di mettere in atto per poter
restituire il prestito a breve termine hanno determinato la 2a crisi del
governo Rumor; l'ulteriore condizionamento posto dall'imperialismo
in occasione del viaggio di Leone negli USA ha aperto la 3a crisi. Che conseguenze
si possono trarre da questi avvenimenti?
- Che il deficit italiano per il petrolio non è congiunturale ma strutturale
e quindi non si può eliminare nel breve periodo: diventerà una componente
fondamentale nella crisi italiana nei prossimi anni.
- Che la politica interna economica degli Stati oggi non viene più decisa
con accordi tra gruppi sociali e forze politiche per es. fra governo e sindacati,
ma viene decisa dagli organi dell'imperialismo mondiale.
- Che le opposizioni o accettano tutte le condizioni imposte dall'imperialismo
o c'è lo scontro frontale: o i sindacati accettano di imporre agli operai
un arretramento dei rapporti di forza conquistati con le lotte, facendosi
complici della repressione imperialista, accettata dalla Dc e dal padronato
italiano, o debbono aprire immediatamente uno scontro di portata politica
generale.
- Che ogni progetto neogollista, fondato sull'autonomia di qualche borghesia
europea sta solo nella testa di alcuni compagni.
- Che i poteri «di governo» degli Stati europei sono oggi assai ridotti,
in quanto gli elementi base di una politica economica interna vengono dettati
da organismi sovra-nazionali dell'imperialismo che sono determinati
da fenomeni internazionali (vedi guerra del petrolio).
- Che ciò che l'imperialismo chiede oggi al governo italiano non è certo
di pagare i debiti ma di piegare la classe operaia, cioè di ridurre l'organizzazione
di classe in Italia a livello zero.
- Che più il proletariato aspetta a rispondere a questo attacco sfrenato
più è peggio.
Ormai l'inflazione mondiale ha di nuovo massificato la classe: ha posto
ampie condizioni perché i contenuti di classe si saldino e si socializzino
sull'intero proletariato. Come accendere la miccia di questo immenso
potenziale esplosivo? Questa è, in ultima analisi, la questione cui deve
dare risposta il dibattito teorico del partito; con questo potenziale vanno
fatti i conti: non basta parlare di «crisi prolungata», del ruolo del revisionismo
in questa crisi e del fatto che le masse ne possono e debbono trovare un
utilizzo; bisogna in primo luogo identificare i punti di «caduta» di questa
crisi e verificare come la risposta proletaria nei singoli paesi, l'atteggiamento
antagonistico sempre più diffuso a livello di massa nella classe operaia,
possa sboccare nello scontro aperto e misurare su ciò il nostro ruolo di
direzione politica.
Noi non siamo tra coloro che vedono come imminente la precipitazione catastrofica
della crisi oggettiva del capitale, ma nemmeno vogliamo accettare una interpretazione
del termine «prolungata» in chiave attendista poco corrispondente ai compiti
che l'attuale fase impone.
Ci pare che non si possa prendere a termine di paragone la revisione della
tattica compiuta da Lenin nel '21 al terzo congresso dell'Internazionale
(intervento di Sofri all'Assemblea nazionale dei Cps 13-10-1974); in
questo modo si corre il grosso rischio di orientare i compagni ad applicare
alla fase attuale il discorso tattico della «conquista della maggioranza»
giustamente elaborato da Lenin rispetto a una fase storica in cui l'immenso
potenziale delle masse europee sfruttate era esploso, ma ormai aveva perso
la partita: condizione evidentemente assai diversa dall'attuale e da
non dimenticare prima di lanciarsi in volo tra le citazioni.
È l'acutezza dell'attuale crisi nazionale e internazionale che schiaccia
il margine riformista, che fa cadere i governi uno dietro l'altro a
dare spazio e a legittimare la sinistra rivoluzionaria: ma è su come si
organizza una risposta strategica e non solo tattica che la sinistra rivoluzionaria
deve qualificarsi, selezionarsi, diventare partito.
Oggi, a sei anni dallo sconvolgimento politico e sociale dato dall'immissione
nello scontro di classe di gruppi consistenti di operai e proletari in tutta
Italia, in tutto il mondo, che portavano istanze tattiche e strategiche
sganciate dall'opportunismo teorico e pratico del revisionismo, assistiamo
all'interno della nostra organizzazione ad un progressivo impoverimento
di ipotesi teoriche e pratiche rispetto al processo rivoluzionario in Italia.
Noi pensiamo che la ricchezza dello scontro sociale oggi in atto richieda
l'apertura e l'approfondimento di un dibattito rispetto ad una serie
di posizioni politiche contro le quali invece, da parte della Direzione
di Lc, sono state spesso utilizzate nella battaglia politica conclusioni
riduttive del tipo: «o noi o i militaristi, non altra alternativa».
Noi riteniamo invece che le varie ipotesi tattiche e strategiche vadano
misurate, confrontate e verificate prima di essere scelte o scartate. Noi
pensiamo che lo scontro sociale in atto nel paese è, come spesso abbiamo
ripetuto, potenzialmente in grado di aprire un processo rivoluzionario esplicito.
Riteniamo perciò che nessuno oggi possa dare per concluso un processo di
approfondimento di idee e di pratica tale da dichiarare vincente questa
o quell'altra ipotesi, e di forma organizzativa, e di direzione politica.
Quello che oggi si può e si deve fare è di iniziare a rimettere le cose
al loro giusto posto, superando le deviazioni opportuniste e militariste
con un'analisi e una pratica politica che metta al centro realmente
la classe operaia e i contenuti dell'autonomia dentro la crisi. Noi
crediamo che il nodo principale da sciogliere sia proprio questo:l'atteggiamento
operaio e proletario dentro la crisi. La ricerca di partito, per essere
né empirica, né presuntuosa, né astratta, né velleitaria, deve ragionare
sui movimenti di lotta di questi mesi, da un lato, e la portata e il significato
della crisi che il capitale sta vivendo, dall'altro. Tutto deve essere
ricondotto a questi due aspetti: le lotte dentro la crisi, come comportamento
operaio di massa e come direzione politica che in esso si è espressa; e
l'oggettività della crisi economica e politica che sempre più stravolge
il rapporto conflittuale consueto tra capitale e classe operaia e lo qualifica
come rapporto scopertamente antagonistico, vissuto sul terreno dello scontro
di potere. L'atteggiamento operaio nella crisi L'acutezza della
crisi economica e politica del capitale, la sua generalità e profondità
ha determinato un salto qualitativo decisivo nel dibattito operaio e proletario:
la consapevolezza di misurarsi già su un terreno strategico, sul terreno
di uno scontro frontale e generale tra capitale e lavoro, tra Stato e classe
operaia, è presente nelle lotte operaie e proletarie di questi mesi.
È questo un fatto, a nostro avviso incontestabile, e il nodo da cui partire.
La possibilità di svolgere in positivo questo nodo sta nella nuova soggettività
operaia e proletaria contro la crisi. Vediamo a partire da quali elementi
concreti basiamo la nostra affermazione. A partire dalla rottura della tregua
autunnale del '73, che seguiva il soffocamento temporaneo del movimento
imposto dal patto fra Dc e sindacati dopo la caduta del governo Andreotti,
la classe operaia e tutto il proletariato si sono unificati intorno alla
risposta da dare alla crisi e all'attacco padronale e governativo alle
condizioni di vita dei proletari. Tutto ciò accelerava ed elevava il livello
di scontro, ponendolo sul terreno generale. La lotta operaia assumeva caratteristiche
«nuove» tali da dare il segno ad una nuova fase, sconvolgendo il quadro
politico generale, mettendolo su un piedistallo sempre più traballante.
Queste caratteristiche del movimento, ben lontane dal rappresentare un fuoco
di paglia, si sono precisate ed accentuate soprattutto in questo ultimo
periodo.
Da un lato, la «lotta dura» dentro le fabbriche, senza più disponibilità
al compromesso, che esprimeva ed esprime la volontà operaia di riprendere
in mano la propria lotta in prima persona, di usare fino in fondo la propria
forza, di riappropriarsi di tutte le forme di lotta che la tregua sindacale
aveva cercato di sottrarre all'iniziativa operaia.
D'altro canto, la lotta del reparto, della fabbrica, la lotta contro
la produzione esce fuori dalla fabbrica (non certo per «politicizzare la
cittadinanza» come pretende il sindacato), ma percorre i contenuti dello
scontro in termini generali, cioè il problema della modifica dei rapporti
di forza nella crisi. Si iniziano così ad individuare e praticare obbiettivi
che rappresentano le controparti della lotta operaia: centri di potere coordinatori
ed esecutivi del programma dei padroni e governo che, attraverso l'inflazione
e recessioni, intende affamare i proletari.
Le grandi manifestazioni di piazza di quei mesi verificano questo atteggiamento
offensivo della maggioranza della classe operaia contro la crisi, e mettono
sempre più in evidenza, in modo estremamente chiaro, come strati più vasti
del proletariato, fino a bancari ed insegnanti, siano direttamente «contagiati»
dal modo in cui la classe operaia affronta lo scontro.
Con le stesse forme di lotta, obbiettivi, parole d'ordine, scendono
in piazza a fianco degli operai. Più avanti, dagli scioperi «dell'autonomia»
di febbraio (SCIOPERO LUNGO) alle manifestazioni dopo i fatti di Brescia,
dalle lotte operaie di questo autunno sull'autoriduzione, la classe
operaia ha trovato momenti di radicalizzazione e massificazione eccezionali.
Il movimento ha compiuto notevoli passi avanti sulla strada ormai tracciata
da questo nuovo ciclo di lotta.
Ha fatto, come si dice, dei «salti», mentre la contrapposizione revisionista
non ha più potuto opporre un muro invalicabile alle lotte (come nella tregua
del '73) dato il precipitare della crisi e dello scontro di classe.
Ma oggi constatiamo negli scioperi generali una presenza sempre più ridotta
della massa operaia. La ragione di questo è dovuta sempre più al fatto che
gli operai non vedono come utilizzare queste scadenze sindacali, completamente
inadeguate rispetto allo scontro in atto. Ciò non significa però che il
movimento è in riflusso, che si è richiuso in una posizione negativa di
resistenza e di rassegnazione. Al contrario, emergono caratteristiche nuove
della lotta operaia: il movimento «cresce dal basso» perché è l'unico
modo per costruire ed esercitare una forza adeguata al modo estremamente
articolato in cui si effettua l'attacco padronale. L'autonomia operaia
si presenta con contenuti nuovi ed estesi in modo capillare. Se la risposta
operaia nelle fabbriche contro la ristrutturazione ricerca ancora una sufficiente
incisività e penetrazione, la risposta che la classe operaia sta dando a
livello territoriale (dall'autoriduzione alla lotta dei disoccupati)
esprime la capacità dell'autonomia di produrre forza, organizzazione,
forme di lotta adeguate a porre concretamente le basi della risposta alla
profondità dell'attacco padronale che è di inflazione e recessione insieme.
Per un movimento così, gli scioperi generali sono scadenze da usare fino
in fondo, ma solo se riescono ad esprimere tutta intera questa forza che
si esprime nelle singole situazioni. Ciò che la classe operaia oggi chiede
in primo luogo è una direzione in grado di ribaltare, situazione per situazione,
i rapporti di forza che la crisi impone.
Contemporaneamente però la dimensione generale «di programma» della lotta
operaia non è affatto perduta. Dall'intreccio di nuove forme di lotta
e di organizzazione nasce la possibilità di una risposta generale sulle
gambe dell'autonomia operaia.
Cresce, nello scontro di questa fase, un atteggiamento della classe che
aggancia sempre più i suoi bisogni immediati ai suoi compiti storici, che
sgancia il programma proletario dalle mediazioni revisioniste e lo aggancia
al problema del potere.
A partire dal problema della FORZA, cresce perciò nella classe operaia anche
il dibattito sulle istituzioni, sul governo, sul colpo di Stato. Diviene
richiesta pressante di preparazione (politica e militare) rispetto al modo
in cui affrontare lo scontro con le istituzioni, con lo Stato. Il revisionismo
nella crisi e lo scontro tra due linee Si sviluppa all'interno del movimento
una critica di massa alla linea sindacale vista e smascherata dagli operai
come gestione della sconfitta del movimento.
Questa critica si sviluppa tanto più forte quanto più è chiara l'iniziativa
operaia diretta contro i costi della crisi. Una critica «strategica» del
sindacato oggi è patrimonio di fette sempre più larghe di operai e ha coinvolto
un numero sempre maggiore di delegati.
Man mano che la crisi del capitale si approfondisce e che la sopravvivenza
del capitale stesso è legata disperatamente a un controllo politico dei
movimenti di classe, due linee si presentano all'interno del movimento
operaio, tra chi vede la necessità e la possibilità di organizzare la propria
forza per vincere e per cambiare le leggi sociali che governano la produzione
e la vita dei proletari, e chi invece come i revisionisti pensa impossibile
un cambiamento dei rapporti di produzione negando che ci siano le condizioni
politiche per un capovolgimento radicale dei rapporti di forza ed escludendo
perciò la possibilità di vittoria strategica della classe operaia (lo Stato
troppo forte - la classe operaia poco matura) e trasformando poi questa
valutazione in teoria di razionalizzazione del processo sociale di produzione
capitalistico come l'unico possibile. Nella sua veste istituzionale
di controllore della classe operaia il revisionismo tenta di correre ai
ripari rispetto al montare del movimento e dello scontro, nell'unico
modo oggi a lui possibile: non più negando la crisi come inizialmente aveva
cercato di fare, ma facendosi portavoce del modo indolore di uscire dalla
crisi, cercando di ripetere l'operazione degli anni del Secondo dopoguerra,
quando si propose come «PARTITO DELLA RICOSTRUZIONE». I revisionisti tentano
una separazione e una contrapposizione tra due livelli di lotta.
Da un lato il livello della lotta di fabbrica, della lotta sindacale, impostata
in modo tutto difensivo, perché pone al centro i bisogni dell'economia
capitalistica e che tende perciò chiaramente alla sconfitta del movimento
(basti per tutti vedere quale risposta dà il sindacato alla cassa integrazione
alla Fiat e all'Alfa Romeo).
Dall'altro il livello della lotta politica impostata come battaglia
tutta istituzionale e parlamentare e che tende perciò ad esorcizzare il
pericolo che le masse si approprino in maniera sempre più ampia e radicale
dello scontro ANTI-ISTITUZIONALE legandolo indissolubilmente alla lotta
per i bisogni materiali. La gestione del Pci della campagna per il referendum,
improntata ad accettare la tregua nelle fabbriche, la gestione tutta «istituzionale»
dell'antifascismo, la «battaglia» - solo parlamentare e debole anche
lì - contro il decretone sono esempi di come i revisionisti perseguono la
spaccatura tra la lotta per il bisogno materiale e la lotta istituzionale.
La prossima campagna, riguardo le eventuali elezioni anticipate, sarà per
i revisionisti un altro banco decisivo di prova per bloccare la lotta e
dividere i due livelli di scontro.
Ma il quadro politico dà il fiato corto a questo progetto revisionista:
nella misura in cui per la classe operaia evitare di andare alla sconfitta
della crisi, di pagare i costi economici e politici, significa che la lotta
per i propri bisogni o viene trasferita sul terreno dei rapporti di forza
espliciti, sul terreno del potere, o altrimenti rischia di ridursi sempre
più ad un atto simbolico. Il tentativo revisionista di schiacciare gli operai
col peso delle proprie organizzazioni di classe, in primo luogo del sindacato,
è destinato ad essere reso vano e ad aprire ulteriormente la contraddizione
all'interno dei sindacati e dello stesso Pci. La «perdita di credibilità»
del sindacato, sottolineata da molti stessi dirigenti sindacali, resa manifesta
dai fischi operai nelle piazze prima delle ferie, è una conseguenza di questo
processo; di qui nasce l'imbarazzo dei revisionisti a trovare nelle
fabbriche quadri sindacali disposti a corresponsabilizzarsi su questa linea.
E di qui nasce la spaccatura che interessa tutto il movimento dei delegati
e dei consigli, proprio perché i delegati non possono non rappresentare,
anche se in modo parziale e distorto, i rapporti di cui sono espressione
all'interno della classe operaia. Come arrivare ad «occupare» questo
«spazio di partito» che si apre nel momento dello scontro tra le due linee?
La violenza operaia nella crisi C'è un dato nell'atteggiamento operaio
in questa fase che è importante rilevare ed analizzare, perché è un punto
centrale di questa contrapposizione tra le due linee ed è segno della consapevolezza
operaia di come oggi, in Italia, si cambiano i rapporti di forza: questo
dato è il comportamento violento che ha contraddistinto e contraddistingue
la lotta operaia in questa fase. Liberarsi dalla cappa di piombo rappresentata
dalla linea revisionista immediatamente significa per la classe operaia
misurarsi non solo sul terreno dello scontro, ma su forme di lotta sempre
più dure e violente. Sono sempre più numerosi gli episodi di lotta «illegali»
che hanno visto e vedono la luce nelle fabbriche, e che dalle fabbriche
si estendono sul territorio.
C'è la ricerca da parte della classe operaia di queste nuove forme di
lotta, che permettono di vincere: ad esempio, la ronda operaia contro lo
straordinario. E non solo ma, come tutte le cose che portano lontano e che
hanno dei precedenti, anche la violenza operaia così come si è sviluppata
in questi mesi e come si svilupperà ancora di più nei mesi a venire, rischia
di venire confusa come «la lotta dura» che è una caratteristica costante
della lotta operaia dal '68 ad oggi. C'è il rischio politico di
dire sulla violenza delle banalità, che ad esempio la violenza operaia c'è
sempre stata perché c'è sempre stata la lotta, i padroni, quindi lo
scontro duro e quindi non vedere la crescita dei livelli di coscienza e
di organizzazione della classe operaia appianando tutto, non vedendo mai
le novità. Noi pensiamo invece che le cose non stanno così, ma: 1) che è
la profondità della crisi che giustifica la violenza proletaria agli occhi
delle masse come espressione della contrapposizione frontale di classe che
fin da oggi tende a conquistare il potere e oggi, a differenza della fase
della lotta dura del '69, LA VIOLENZA assume un valore diverso perché
è una forma fondamentale con la quale gli operai, in una fase di crisi e
non di espansione del capitale, esprimono completamente la propria economia.
La violenza, consapevole, premeditata, con cui il capitale attacca la classe
operaia per scaricare su di essa costi economici e politici della crisi,
e per ridurre a zero la sua organizzazione politica, è assolutamente inusitata.
Per questo la classe operaia, usando tutta la propria forza organizzata
in modo violento e illegale, non fa altro che ripercorrere, IN MODO CONSAPEVOLE
E COLLETTIVO, i rapporti di produzione con cui si esprime, in modo altrettanto
violento la forza del capitale oggi. La ricchezza di nuove forme di lotta
che questa fase sta producendo, la saldatura tra la lotta violenta contro
la ristrutturazione del potere padronale in fabbrica, contro l'organizzazione
del lavoro e la lotta illegale fuori dalla fabbrica (trasporti, case, tariffe
ecc.) è niente altro che l'espressione di questa intelligenza pratica
della classe operaia - l'espressione più completa della sua autonomia.
2) Chiunque oggi pretenda di avere un ruolo nello scontro di classe o si
fa carico della portata complessiva dello scontro in atto e quindi anche
del problema della violenza e della sua direzione o lascia la gestione delle
cose in mano ai revisionisti, chiudendosi gli occhi di fronte ad una dimensione
della risposta violenta organizzata che è già presente nel movimento; certo
non maggioritaria, però sufficientemente vasta per iniziare a funzionare
come punto di riferimento. In tutto questo periodo di lotte prima, durante
e dopo lo sciopero lungo, fino ad arrivare ad oggi, a noi pare evidente
come la nostra organizzazione (e con lei gli altri gruppi da Ao al Pdup)
abbia invece progressivamente rinunciato al tentativo di esprimere una direzione
politica del movimento nel senso che abbiamo detto sopra. Questo a nostro
avviso deriva da una linea politica sbagliata. La teoria dei due tempi Noi
giudichiamo che oggi la nostra organizzazione si faccia carico di quella
divisione pratica e teorica tra tattica e strategia, tra sviluppo delle
contraddizioni all'interno del nemico di classe e crescita del processo
di organizzazione autonoma del proletariato che è tipica dell'opportunismo.
Intendiamoci bene - non è che la linea dell'organizzazione neghi a parole
la forza strategica dell'autonomia operaia, non è che dica di rinnegare
i suoi contenuti, anzi li afferma sempre come premessa: «noi siamo strategicamente
per il rifiuto del lavoro salariato». È questa un'affermazione che attraversa
tutta la storia della nostra organizzazione, dalla sua nascita nelle lotte
autonome selvagge sulle catene di montaggio Fiat (con un capitale che, puntando
all'utilizzazione della lotta operaia ai fini della sua espansione produttiva,
si stava scavando la fossa) ad oggi (con un capitale che punta ad una drastica
riduzione della sua base produttiva come premessa necessaria per sconfiggere
la classe operaia). Ma sempre più il riferimento dell'autonomia si presenta
statico, una affermazione, appunto. Ciò che rischia di essere messo in discussione
nei fatti, è la possibilità di mantenere viva la forza strategica dell'autonomia.
Solo se continuamente riesce a portare nello scontro in atto un'alternativa
al revisionismo l'autonomia è in grado non solo di sopravvivere, ma
di utilizzare le contraddizioni in favore del rafforzamento della classe
operaia sui suoi contenuti. Nella profondità della crisi attuale, in Italia
e nel mondo, i contenuti dell'autonomia operaia esprimono alternativa
di potere perché è tutta la società classista che viene messa in discussione
dalle masse sfruttate, perché possibilità di mediazione tra interesse operaio
e interesse padronale NON CE NE SONO. Perché, lo si voglia o no, la lotta
operaia e proletaria contro la crisi, mettendo in discussione il problema
di una modifica dei rapporti di forza, mette in discussione in definitiva
IL PROBLEMA DEL POTERE. Perciò per la classe operaia è in gioco già oggi
la possibilità di arrivare a misurarsi in uno scontro di potere con il capitalismo;
uno scontro, certo, di lunga durata. Mantenere viva la forza strategica
della autonomia operaia secondo noi non può significare cercare scorciatoie
o l'operare tentativi di mediazione impossibili. Nessuno nega che il
processo della conquista della maggioranza alla rivoluzione, la rivoluzione
in sé, è un processo di lunga durata che non è la presa del palazzo d'inverno;
ma ci sembra che la nostra organizzazione, mentre cerca di andare a fondo
nell'indicare le contraddizioni del nemico, non sappia indicare o dica
ben poco su come il processo rivoluzionario sta marciando nello scontro
tra operai e padroni, cioè in che modo e con che strumenti le masse usano
e approfondiscono queste contraddizioni, fanno proprio questo processo e
in che modo la rivoluzione politico-rivoluzionaria si impegna per portarlo
ad uno sbocco positivo. L'errore di questa linea è quello di separare,
slegare il cumularsi delle contraddizioni dal preparare, costruire, guidare
un movimento che sappia superarle e utilizzarle in senso rivoluzionario,
là dove tutte si incrociano cioè NELLA ALTERNATIVA DI POTERE. Da questo
deriva la teoria, opportunista ed attendista, dei due tempi.
Con questa impostazione si corre il rischio di dare respiro al tentativo
revisionista, che è quello di rendere impotente l'autonomia con l'affermazione
che la stessa, strategicamente, «non ha nemici», che si può fare il compromesso
storico oggi e il socialismo domani, basta riuscire a dividerci più o meno
amichevolmente il potere con i padroni. Noi crediamo che il tentativo revisionista
di soffocare la forza viva dell'autonomia operaia sia miseramente destinato
a fallire, dentro il processo di crisi mondiale dell'imperialismo. Ma
l'autonomia va sviluppata e diretta in questo scontro, non basta limitarsi
a constatare la forza della classe operaia e le contraddizioni che essa
genera nel nemico. Ci sembra invece che nella linea dell'organizzazione
abbia invece preso piede una tendenza al massimalismo e insieme a sottovalutare
i compiti sempre più importanti e decisivi di direzione politica da parte
dell'avanguardia rivoluzionaria sul movimento, mettendo invece sempre
più al primo posto la propria capacità di spingere sulle contraddizioni
all'interno delle forze di sinistra, e in particolar modo all'interno
del sindacato o di quei settori di esso che più degli altri sono sottoposti
alla pressione della base. In sostanza, rendendosi conto che è necessario
uscire da una logica di reparto, ecco che si elaborano PIATTAFORME GENERALI,
ben articolate, con obbiettivi quantificati sia a livello delle richieste
materiali - 1000 lire appunto per la contingenza, minimi per le trattenute
pensioni ecc. - sia a livello delle richieste politiche (cioè istituzionali)
(Msi fuorilegge, le parole d'ordine antiatlantiche, lo scioglimento
del Sid, disarmo della polizia ecc.).
Il problema principale che Lc si è posta in questi mesi è stato quello di
fornire al movimento di lotta un «programma generale» che ne rappresentasse
la prospettiva, da calare come cappello negli scioperi generali degli obbiettivi
precisi. Che questi obbiettivi siano «giusti», che piacciano molto agli
operai nessuno lo vuole negare: ma il risultato che ne consegue è la separazione
netta, tipica della fallimentare esperienza del massimalismo, tra agitazione
del programma e costruzione della forza politica, quindi rivoluzionaria,
capace di guidare un movimento di lotta che conquisti questo programma.
La mozione finale del convegno operaio di Lc di Firenze, mentre da un lato
contiene un'analisi sull'approfondirsi della crisi e sulla necessità
di accelerare i tempi della risposta operaia, dall'altro si riduce ad
un lunghissimo elenco di obbiettivi «GENERALI» e ad indicare nei Cuz gli
strumenti per praticare il programma, come embrione del potere proletario.
In Lc si scopre la tattica Ma cerchiamo di esaminare più da vicino la teoria
della nostra organizzazione sulla tattica. È a partire da una entusiasta
valutazione del proprio «peso» politico dentro la campagna per il referendum
che in Lc si constata di avere finalmente una TATTICA. «Basta con il velleitarismo
estremista»; «il partito deve avere una tattica adeguata»; «nella campagna
sul referendum siamo finalmente entrati in contatto con la maggioranza del
proletariato» sono affermazioni che divengono sempre più il cuore della
linea politica di Lc. L'enunciazione «teorica» è questa: «la strategia
è l'autonomia operaia, la tattica è la CONQUISTA della maggioranza».
Affrontiamo dunque questa enunciazione.
Sul fatto che la strategia è l'autonomia operaia non possono esserci
dubbi, ma dobbiamo chiederci che cosa ciò significa concretamente. Secondo
noi l'autonomia esprime oggi non solo il rifiuto strategico del lavoro
salariato e dell'organizzazione capitalistica del lavoro, ma soprattutto
esprime contenuti tali da poter egemonizzare in quanto tale, cioè restando
se stessa e senza abdicare ad alcuna parte del suo programma, la classe
operaia e l'intero proletariato.
In altre parole, l'autonomia operaia non è solo «strategia» ma è di
per sé «tattica», nel senso che già da ora esprime gli interessi che SONO
quelli della maggioranza. Invece la nostra organizzazione riduce ad una
azione di spinta sui revisionisti i compiti tattici dell'autonomia operaia.
La tattica è vista come la conquista della maggioranza al «programma operaio»
che è un programma di «governo»: cioè la possono portare avanti solo il
Pci e i sindacati, una volta entrati nella stanza dei bottoni. «Conquistare
la maggioranza» significa dunque costringere Pci e sindacati a portare avanti
gli interessi della maggioranza.
Secondo noi una corretta tattica è fondamentalmente la risposta a come assolvere
il ruolo di direzione politico-militare sulla classe: solo a partire da
ciò è possibile anche utilizzare le contraddizioni sempre più laceranti
dei revisionisti.
Infatti, mano a mano che la crisi si acutizza, gli spazi che restano alla
mediazione dei vertici del Pci per risolvere la contraddizione di perseguire
una politica borghese e di voler conservare una base popolare sono sempre
più scarsi e in ultima analisi si traducono, nel momento in cui cresce concretamente
un'alternativa di potere del proletariato (e d'altro canto si rafforza
l'ipotesi golpista), nella difesa debole e perdente delle istituzioni
repubblicane e borghesi e nella ricerca affannosa della continuità del proprio
ruolo di garanti della stabilità democratica. Perché Lc scopre oggi la tattica
e la riduce poi a ciò che dicevamo? Secondo la nostra organizzazione i rapporti
di forza internazionali e interni fra le classi non permettono nel medio
periodo uno sbocco rivoluzionario in Italia e quindi si tratta non di lavorare
in una prospettiva di potere e di ribaltamento istituzionale, ma di agire
attraverso le istituzioni, predisponendo tutto in vista dello scontro futuro.
Questa considerazione, molto vicina all'analisi revisionista, non è
mai stata esplicitata, ma noi la assumiamo ugualmente come propria di Lc
per due motivi: il primo, che questa logica traspare con evidenza cristallina
in ogni aspetto della pratica di Lc; il secondo, che senza questi presupposti
non avrebbero più alcun senso parole d'ordine come: «FUORILEGGE IL MSI»,
«SCIOGLIERE IL SID» etc. Obbiettivi questi che vanno nella direzione di
inceppare, se raggiunti (quanto al modo di raggiungerli, non è molto chiaro),
i meccanismi repressivi dello Stato (e adatti per una fase politica in cui
il compito dei proletari sarebbe unicamente quello di non permettere una
stabilizzazione reazionaria del governo borghese). Ma intanto oggi si rimanda
l'aggressione allo Stato; e alla domanda di POTERE dei proletari si
risponde con una soluzione di GOVERNO, affidata al Pci, che avrebbe il compito
di garantire la vittoria all'impatto decisivo, in una prospettiva di
tipo cileno che ne rovesci l'esito. Noi non vogliamo rimandare a prospettive
fantasiose compiti che sono dell'oggi, perché è oggi che si tratta di
scuotere in modo generale l'assetto dello Stato e delle sue istituzioni.
Non si vince questa fase dello scontro con gli scioperi per la contingenza
o contro l'attacco all'occupazione; si vince (e si conquistano anche
quegli obbiettivi) solo lottando per momenti decisivi di potere in fabbrica
e costruendo sul terreno generale non solo rapporti di forza più favorevoli,
ma una direzione politico-militare della classe. In altre parole, occorre
raccogliere i livelli di illegalità di massa espressi da consistenti settori
proletari, per indicare la strada della lotta vincente, che non delega a
nessuno (tanto meno al sindacato o ai Consigli) la responsabilità di gestirla,
ma che si può impadronire anche degli strumenti sindacali così come ne crea
altri adeguati alla specificità dello scontro. I dirigenti di Lc pretendono
di «organizzare» stabilmente le masse ai livelli a cui è giunto il loro
centro, facendosi gestori della «MEDIETÀ» del movimento. In questo modo
si pretende di ingabbiare le avanguardie col pretesto di recuperare «chi
è rimasto indietro» e si finisce per condizionare lo sviluppo della lotta
alle zone definite «arretrate», facendo un pessimo servizio anche a queste
ultime perché le priva, nello sviluppo della crisi, di quei punti di riferimento
reali che, soli, possono fornire indicazioni e prospettive vincenti a tutto
il movimento. Occorre cioè capire che l'autonomia sempre più c'è
OVUNQUE, perché è la crisi stessa che spazza via le mediazioni opportuniste
e rende vincenti ovunque le indicazioni dell'autonomia. Al contrario,
nello scontro tra le classi, chi si affida alla illusoria capacità del sindacato
e del Pci di fornire una risposta NON PERDENTE alle grandi masse, rende
un pessimo servizio alla rivoluzione. Alcuni compagni ritengono che sviluppare
oggi una direzione politico-militare, sia poco «realistico», nel senso che
lascerebbe ai margini il problema di dare in ogni caso una risposta univoca
a livello nazionale all'attacco dei padroni e prendono ad esempio le
difficoltà attuali del movimento di classe a rispondere. Noi pensiamo che
queste difficoltà siano effettive, ma siano imputabili più che alla stessa
pesantezza dell'attacco, alla ben poca chiarezza della risposta indicata
dai riformisti e specialmente alla completa oscurità della prospettiva politica.
È evidente insomma che le ambiguità della linea sindacale rischiano di regalare
al qualunquismo una parte consistente di movimento e in ogni caso di condurre
direttamente a una sconfitta operaia di portata storica e del tipo di quella
consumata negli anni '50. Ma veniamo agli esempi concreti in cui la
linea di Lc si è esplicitata dentro il movimento: LO SCIOPERO LUNGO DELL'AUTONOMIA.
La classe operaia usa lo sciopero lungo per rimettere al centro la forza
dell'autonomia operaia per legare ciò che rischiava di essere diviso:
cioè il problema del programma dal problema della forza necessaria per conquistarlo,
cioè il problema del potere.
Con questa prova di forza della classe operaia la tregua va in frantumi:
nessuno può fare a meno di accorgersi che un salto c'è stato, ma ci
si limita a «fotografare» la situazione, individuando il carattere «insurrezionale»
dello sciopero lungo (la tendenza di andare al centro a contrapporre programma
a programma, classe a classe) ma dimostrandosi incapace di dirigere questa
spinta delle masse.
Al discorso preciso che viene avanti nel dibattito di massa sulle necessità
di compiere passi avanti nello scontro, nella pratica di forme di lotta
sempre più illegali e vincenti, si contrappone, come se fosse in alternativa,
il problema della direzione e quindi dell'organizzazione di massa in
questo scontro e il programma generale.
In questo senso l'indicazione espressa durante lo sciopero lungo da
consistenti strati di avanguardia di massa di dirigere i cortei operai alle
prefetture come semplificazione del terreno su cui si svolgeva lo scontro
sempre meno aziendalistico, sempre più generale e socializzato, non viene
fatta propria dalla nostra organizzazione.
Si sostiene che il compito dei rivoluzionari non è quello di dirigere le
masse a questo scontro, di prepararlo tra le masse perché sia più esteso
e vincente possibile, ma semplicemente, quello di STARE DENTRO LE COSE,
se possibile certo, alla testa dei cortei, ma senza alcun ruolo di direzione
delle masse al di là dell'agitazione degli obbiettivi del programma
e della denuncia dell'attacco padronale.
«NON SI VINCE SUL SALARIO» dicono i dirigenti della nostra organizzazione,
non si può vincere in questa o quella lotta, si può vincere solo con la
lotta generale. Ne risulta quindi che è inutile e sbagliato arrivare allo
scontro, «si rischia di fare il gioco dei padroni».
La lotta generale diventa così un mito di cui si conosce la testa (la classe
operaia con i suoi obbiettivi) ma non le gambe su cui camminare; è chiaro
che dentro questa impostazione, fino in fondo, ruolo dell'organizzazione
rivoluzionaria come ruolo fondamentale, diventa la spinta sulle contraddizioni
del sindacato.
Si dice che la lotta generale non la si costruisce pezzo a pezzo sul legame
dell'autonomia: la lotta generale può dichiararla solo il sindacato
sulla spinta della lotta operaia; si finisce cioè in un circolo vizioso,
fatto cioè di spinte sul sindacato - aumento delle contraddizioni - aumento
degli spazi alla lotta come conseguenza all'aumento delle contraddizioni
- aumento della spinta... e così via sino alla lotta generale. Ciò che viene
lasciato in disparte con il discorso, troppo vero, che noi (Lc) non siamo
tutta l'autonomia è proprio il nostro ruolo di direzione SULLA FORZA
VIVA DELL'AUTONOMIA. L'OCCUPAZIONE «SIMBOLICA» DELLE CASE A MILANO
- Esemplare per chiarire ai compagni il discorso che stiamo facendo è il
ruolo che la nostra organizzazione ha avuto nell'occupazione la primavera
scorsa. Nessuno poteva non vedere il carattere di massificazione e la capacità
di unificazione del proletariato generato dalla crisi (1000 famiglie in
maggioranza proletarie e soprattutto operaie) ma il presupposto con cui
Lc partecipa e dirige insieme ad Ac l'occupazione è quello che vincere
è impossibile, che la casa la si può ottenere solo con la lotta generale.
L'utilizzo della lotta viene visto solo come mezzo per acuire le contraddizioni
all'interno del sindacato. Spetterà a San Basilio dimostrare quanto
questi proletari che occupavano le case a Milano avessero ragione, e quanto
Lc e Ac torto. Brescia L'eccezionale risposta di massa data dalla classe
operaia all'attacco fascista di Brescia, viene utilizzata ancora una
volta dai dirigenti della nostra organizzazione per sviluppare meglio la
propria teoria dei «due tempi» rispetto a un problema strategico di fondo
cioè al problema dell'ARMAMENTO DELLE MASSE. Anche il problema dell'armamento
delle masse viene visto come subordinato allo sviluppo delle contraddizioni
del sindacato e non in rapporto ad una direzione comunista del movimento
di massa. Viene detto: l'armamento delle masse avviene per salti (e
fin qui chi dice il contrario?) e questi salti avvengono solo come risposta
all'attacco padronale sui tempi e sul terreno che l'avversario di
classe impone (vengono citati come esempi, la risposta alla strage di Brescia
e la risposta alla crisi dell'ottobre 1972 in Cile); perché solo in
questo caso è possibile che l'organizzazione revisionista di massa si
faccia carico del problema, passaggio che viene visto come ulteriore elemento
necessario perché il processo si realizzi. Con questa impostazione si chiudono
completamente gli occhi sul fatto che i «salti» che le masse oggi chiedono
di compiere, in termini di organizzazione e di possesso di strumenti di
armamento, sono in funzione del come realizzare una pratica di iniziativa,
di attacco contro l'uso padronale della crisi; è in funzione, insomma,
del vincere sui propri obbiettivi e sul proprio terreno come del resto ben
dimostra l'episodio, da tutti concordemente definito il più alto livello
di armamento di massa sin ora attuatesi, e cioè San Basilio. Nei fatti,
ciò che Lc dopo Brescia mette in primo piano è l'agitazione da fare
nelle masse, nei Cdf, nei Cuz, sugli obbiettivi generali (scioglimento del
Msi, del Sid, organizzazione democratica dei soldati ecc.) perché il sindacato
sia costretto a farsene carico; la forte ondata di epurazioni nel Bresciano,
la chiusura violenta di sedi fasciste in tutta Italia, il processo di organizzazione
di massa autonoma (che certamente usa anche i consigli di fabbrica) sul
terreno della violenza antifascista, sono dati che presto vengono messi
da parte.
Invece di assumersi il ruolo di far marciare sulle gambe dell'autonomia
questo processo, Lc si fa portatrice nel movimento di obbiettivi anche qui
giusti, ma massimalistici, perché non direttamente praticabili. È su questa
strada che si arriva ad affermare che siano i Cuz gli embrioni del potere
proletario, il che, a nostro avviso, ha bisogno di pochi commenti. L'autoriduzione
delle bollette e della spesa Le conseguenze di questa linea e di questa
pratica politica si fanno oggi sempre più preoccupanti in una situazione
in cui la volontà della classe operaia si esprime necessariamente in modo
frammentario, anche estremamente violento. Lc si scopre sempre più incapace
di assolvere a compiti di direzione politica del movimento, sempre meno
interprete di indicazioni tattiche e strategiche in grado di raccogliere,
organizzare, estendere la spinta di massa. È vero che anche Lotta continua
si impegna, come tutti del resto, in prima persona nella raccolta delle
bollette della luce, nella lotta all'autoriduzione; ma ancora una volta
lo scopo di questo impegno viene ad essere l'utilizzo della spinta di
massa sulle contraddizioni all'interno del sindacato, l'agitazione
su obbiettivi generali come i prezzi politici, la mitica attesa della lotta
generale contro il carovita. Certo che le contraddizioni del sindacato sulla
questione della autoriduzione sono grosse e vanno utilizzate: la copertura
che le Confederazioni hanno fornito all'autoriduzione delle bollette
a Torino, lo scontro Fim-Fiom a Milano, costituiscono certo un fatto importante
per la possibilità di estensione delle nuove forme di lotta, ma il centro
dell'attenzione di una organizzazione rivoluzionaria deve essere la
costruzione, a partire dall'autonomia, dalla forza di utilizzare queste
grosse contraddizioni, di partire da questi «fatti importanti» per estendere
nel concreto le nuove forme di lotta, su un terreno di scontro che non è
certo quello legalitario fornito dai revisionisti. Le gambe su cui può marciare
la lotta contro il carovita sono quelle della forza viva dell'autonomia,
e il terreno è quello scopertamente illegale dell'appropriazione di
massa e della sua difesa violenta e organizzata. In queste lotte iniziano
a saldarsi il rifiuto operaio di pagare i costi della crisi e l'attacco
politico alle istituzioni: è necessario che su questa strada si vada avanti.
Lo Stato, che a Torre Annunziata ha fatto arrestare dalla polizia in un
sol colpo 50 disoccupati perché occupavano i binari, che ha arrestato a
Milano 11 compagni e proletari che facevano «la spesa autoridotta» non è
disposto a stare a guardare, a tollerare che queste cose si estendano. Lc
è assente da questi fatti come pratica e come gestione di massa: il giornale
non scrive niente per 15 giorni sulla questione «dei supermercati». Si dice:
queste cose sono anche da fare ma sono marginali, non risolvono niente,
l'importante è la lotta generale.
In realtà, in nome di una tattica opportunistica, che invano si cerca di
nobilitare con le citazioni di Lenin, ci si stacca sempre di più dall'autonomia
e dai suoi contenuti, solo a partire dai quali è possibile invece un giusto
uso della tattica e delle contraddizioni. Vediamo meglio questo problema
delle contraddizioni.
È fuori discussione che una situazione sociale e politica di crisi come
la nostra, crea un grosso numero di sempre nuove contraddizioni, e trasforma
e approfondisce quelle vecchie. È esemplare rispetto a ciò, come abbiamo
già detto, lo scontro nel sindacato sull'autoriduzione.
Ma il nostro problema è: quale indirizzo generale diamo a queste contraddizioni?
Schematicamente i dirigenti di Lc rispondono: dobbiamo aumentarle, accrescerle
oggi, perché la lotta operaia possa utilizzarle domani.
Noi diciamo invece che di una contraddizione, prima di tutto, dobbiamo farci
portavoce ovunque, dalle assemblee, ai CdF, ai Cum: quella che oppone il
rifiuto di gestire la sconfitta operaia alla accettazione strategica del
potere borghese nel suo complesso fatta propria dai revisionisti. Lavorare
su questa contraddizione vuol dire capire oggi e non rimandare domani come
far crescere e dirigere il movimento delle masse contro il potere. La «Lezione
cilena» Il modo in cui Lc affronta il problema delle contraddizioni, rimanda
a quello schema teorico del processo rivoluzionario che va sotto il nome
di «Lezione cilena». La sostanza della lezione cilena sta per Lc nella possibilità
che anche in Italia si arrivi in una situazione di «gestione operaia del
potere» con il Pci al governo, e nella constatazione che questo modello
di governo è il più favorevole allo sviluppo del processo rivoluzionario.
I «due tempi» sono ben chiari: i problemi strategici della rivoluzione,
il problema dell'armamento delle masse vengono rimandati a dopo che
il Pci sarà andato al governo.
Cioè, la questione del potere, e quindi, quella dell'armamento, in funzione
di questo si rimanda al dopo, proprio perché non si considera che dentro
lo scontro sociale che stiamo vivendo lo sbocco positivo per il proletariato
non può essere semplicemente uno sbocco di governo ma uno sbocco di potere,
su cui perciò, per essere direzione politica del proletariato, bisogna lavorare
fin da oggi. Ridotto all'osso, lo «schema cileno» può essere schematizzato
così: A) le masse si armano solo dentro un processo che ha dimostrato loro
la necessità di armarsi in seguito all'attacco del nemico (espressione
di gravi contraddizioni del nemico o di difficoltà di gestione del potere).
B) il modo migliore per mettere in moto questo processo, creatore di progressivi
e gravi squilibri politici e capace nello stesso tempo di attivizzare nello
scontro politico le masse, è la partecipazione del Pc al governo.
Gli errori di questa impostazione sembrano di due tipi e tra loro e con
essi: 1° Non si vedono, e non si sottolineano con sufficiente profondità
le differenze decisive tra il Cile e l'Italia. 2° Non si criticano a
fondo gli errori della sinistra rivoluzionaria in Cile, come sarebbe necessario
per riprodurre un esito differente del processo favorevole alla rivoluzione.
In Italia, nel quadro politico di oggi l'ingresso del Pc nell'area
di governo significa la proposta di un'alleanza tra il Pc e le altre
forze politiche e borghesi, cioè un patto istituzionale.
Non è certo il Pc a farsi carico di un'ipotesi frontista: «il 51% non
basta» è la lezione cilena per Berlinguer, non si può spaccare la Dc, altrimenti
è il golpe.
Il patto istituzionale è l'opposizione ad ogni forma di lotta ed organizzazione
proletaria per il potere in Cile. La sostanza del compromesso è che il Pc
fornisce se stesso come garanzia di gestione per la tregua sociale e quindi
di sconfitta dell'autonomia operaia, in nome della solidarietà nazionale
e della difesa delle istituzioni. Il dibattito è ancora aperto; lo spettro
delle elezioni anticipate fa comunque intravedere la necessità per la borghesia
di arrivare infine ad una scelta. E sono ben chiari i ricatti che gli USA
porteranno per evitare la scelta del Pc. In Italia il revisionismo al governo
rappresenterebbe a sua volta una acutizzazione dello scontro per il potere
in atto da oggi; il Pci vi porterebbe la sua adesione strategica alla gestione
borghese della crisi, che oggi vediamo bene. Contraddizioni in Italia certamente
ce ne sarebbero, ma rispetto ad oggi aumenterebbero solo di quantità, e
non libererebbero la forza dell'autarchia, anzi secondo lo schema cileno,
si passerebbe a quel punto in Italia dal purgatorio della gestione revisionista
all'inferno del golpe, in mancanza di una esplicita prospettiva di scontro
per il potere a partire dalla iniziativa proletaria. L'ipotesi che fa
oggi Lc, rispetto alla questione del governo, non è quella del compromesso
storico, ma, nel processo di putrefazione della Dc, una spaccatura nella
Dc stessa e l'ingresso del Pc al governo sulla spinta della lotta generale
per il programma. La «lotta generale» non è qualche cosa di indefinito,
senza caratteristiche precise; lotta generale non sono certo gli scioperi
generali proclamati dal sindacato. Una ipotesi di spaccatura del fronte
borghese non si dà, se non dietro uno sconvolgimento senza precedenti del
tessuto sociale, se non come effetto di un cambiamento dei rapporti di forza
tra proletariato e borghesia che sconvolge quasi dalle fondamenta le rappresentanze
politiche, che renda il paese ingovernabile. Ma allora, solo assumendosi
le proprie responsabilità di direzione rivoluzionaria nello scontro di massa
e non limitandosi all'agitazione del programma fra le masse e alla delega
al sindacato della lotta generale, Lc svolgerebbe la propria funzione e
questo sarebbe anche l'unico modo per costruire uno sbocco positivo
al processo rivoluzionario al di là dell'andata o meno del Pc al governo!
Ma quali sono i compiti di una direzione rivoluzionaria nella situazione
politica di scontro che c'è oggi in Italia? Abbiamo visto la tendenza
del movimento ad esprimere il proprio rifiuto a pagare i costi della crisi
sul terreno istituzionale con forme di lotta illegali (e tendenzialmente
armate: S. Basilio). Questa tendenza non investe solo punte isolate, ma
è un comportamento destinato ad estendersi sempre più nella classe, a ramificarsi
e socializzarsi, ben oltre l'antagonismo «puro» tra «operai di linea»
e capitale dentro la fabbrica. Questo succede perché l'imperialismo
e la borghesia nazionale non hanno più spazi e mediazioni da concedere al
movimento ma sono costretti, dalla portata dello scontro, ad imporre il
proprio potere con la forza economica e militare dello Stato. Per questo
oggi lo scontro si gioca sul terreno dello scontro per il potere - la «questione
militare» diviene decisiva, il problema dell'armamento delle masse è
all'ordine del giorno. Momenti di scontro vincente con lo Stato, come
S. Basilio, mentre dimostrano alla borghesia che i costi dell'attacco
frontale alla classe operaia sono altissimi, sono indicazione e prospettiva
per tutto il movimento di massa di come praticare concretamente il programma
dei propri bisogni, di come si può imporre una modifica dei rapporti di
forza. Questo significa per noi: 1) che la condizione politica perché le
masse si approprino del problema del proprio armamento è già oggi presente
nell'atteggiamento che le masse hanno nello scontro. 2) che il processo
di armamento delle masse deve essere in rapporto con la crescita di una
direzione comunista del movimento. La direzione comunista che non si pone
il problema della forza e quindi dell'armamento delle masse necessario
per modificare i rapporti di forza è solo massimalista. Momenti specifici
di attacco alle istituzioni hanno valore politico se visti nella capacità
di farli pesare nel movimento di massa, di agganciarli ad esso. L'«azione
Sossi» ad esempio, pur esprimendo tecnicamente un livello assai elevato,
presenta però dei limiti politici decisivi, proprio perché rappresenta un
attacco alle istituzioni (il rapimento di un magistrato e lo scambio con
detenuti politici) senza prospettiva politica proprio nella misura in cui
una iniziativa come questa non è gestita tra le masse perché non è espressione
di una direzione politico-militare che cresce e si sviluppa dentro il movimento.
N.b.: ben diversa è però la critica che fa Lc all'azione Sossi. Lc infatti
punta a mettere in rilievo in questa azione soprattutto il suo peso «elettorale»,
cioè l'utilizzo che ne può fare la borghesia rispetto alla campagna
fanfaniana sul referendum.
E questo in una situazione in cui la nostra organizzazione, tutta rivolta
alla campagna elettorale, si adopera, volente o nolente, a collaborare con
i revisionisti nel disarmare politicamente le masse.
Privilegiando infatti il suo ruolo di «portavoce» della classe operaia sul
terreno istituzionale ed elettorale, Lc finisce per metterlo in alternativa
al ruolo di direzione del movimento sul terreno dello scontro di classe
complessivo, e in particolare per quanto riguarda l'antifascismo militante.
3) in definitiva il compito delle avanguardie, della direzione politica
del movimento, è quello di essere insieme anche direzione militare. Il fatto
che il processo rivoluzionario sia prolungato nel tempo non significa che
sia un «continuo» interrotto solo dai colpi del nemico: significa piuttosto
che si passa attraverso tappe in cui è possibile o necessario far crescere
dentro le masse una direzione politico-militare che è rivoluzionaria proprio
perché si pone il problema di raccogliere, dirigere, preparare, spingere
la tendenza del movimento a scontrarsi con lo Stato nel suo complesso.
Ma per non cadere nell'avventurismo è necessaria da parte delle avanguardie
la previsione dei tempi e del terreno di sviluppo dello scontro con lo Stato,
dei momenti di «caduta» di questo scontro, della forza e delle contraddizioni
del nemico di classe. Cioè bisogna poter indicare in quali lotte, con quali
forme di lotta, su quali obbiettivi il movimento possa concretizzare elementi
di scontro vincente. In quest'ottica va visto il problema del «servizio
d'ordine operaio», che è il problema di come, dove, quando, a partire
dalle esperienze di organizzazione della lotta operaia e proletaria (dai
disoccupati, all'autoriduzione, alle ronde operaie) è possibile per
le masse accumulare ed esercitare forza necessaria per sostenere lo scontro
e vincerlo. S. Basilio è stata esemplare per tutto questo: l'intransigenza
proletaria nel difendere i propri interessi si è scontrata con la volontà
dello Stato di spezzare militarmente l'occupazione delle case.
La lotta ha vinto perché lo Stato ha dovuto fare i conti con un livello
di armamento dei proletari adeguato e con una difesa politico-militare non
delegata alla «spontaneità» delle masse.
A S. Basilio è l'autonomia operaia che si è fatta carico dei problemi
dello scontro, della valutazione della forza del nemico e della preparazione
della forza proletaria in grado di vincere lo scontro; e ha espresso così
i bisogni e le esigenze della maggioranza dei proletari. È bene a questo
punto precisare una cosa: quando parliamo di «lotte vincenti» non intendiamo
assolutamente ipotizzare uno sviluppo dello scontro di classe in Italia
di tipo gradualistico, in cui il proletariato diretto dalla sua avanguardia
si appropri gradualmente di «fette di potere» fino ad arrivare un bel giorno
a prendersi «tutto il potere».
Dal «prendiamoci la città» alle «basi rosse» al «contropotere consiliare»
si è fantasticato molto sulle forme di esercizio del «potere proletario»
fondando il tutto su previsioni sbagliate dello scontro di classe in Italia.
Le «basi rosse» le «cittadelle o zone liberate» sono pura fantasia di fronte
al potere centrale, economico e militare, dello Stato.
Ma questo non significa che sia giusto abbandonarsi alla pratica del «giorno
per giorno» rimandando al domani, come fa Lc, l'assunzione della propria
funzione strategica rispetto al problema dello scontro con lo Stato, facendosi
paravento del banale discorso «si vince solo con la lotta generale». Ciò
che intendiamo per «lotta vincente con lo Stato» nella crisi è che la tendenza
proletaria a lotte che vincano, che paghino, esprime l'identificazione
sempre più stretta tra bisogni materiali e bisogni storici del proletariato,
tra lotte per il programma dei bisogni e lotta per il potere, per il comunismo.
Oggi la lotta per la modifica dei rapporti di forza a favore del proletariato
è immediatamente trasferita sul terreno dello scontro, della lotta per il
potere; ma perciò lo sbocco che fa essere la lotta vincente non è dato da
un semplice programma di governo, né dal Pci al governo; è dato da un salto
di qualità che la volontà proletaria di vincere, scontrandosi con lo Stato,
può compiere solo nella misura in cui esprime un soggetto rivoluzionario
cosciente capace di essere DIREZIONE POLITICO-MILITARE del movimento proletario
di lotta e di sviluppare perciò un programma tendenzialmente di potere.
C'è da sottolineare che il quadro di esperienze che vanno nel senso
di una direzione politico-militare che cresca e si sviluppi in modo offensivo
dentro il movimento È ANCORA PURTROPPO ASSAI LIMITATO, soprattutto per le
scelte dei gruppi e della nostra organizzazione di NON misurarsi su questo
terreno, ma anzi di relegare ai margini del movimento ogni tentativo di
interpretare e raccogliere la tendenza delle lotte operaie e proletarie
a scontrarsi contro lo Stato. Cosa dice infatti Lc sul problema dell'armamento
delle masse e della direzione politico-militare del movimento? Lc teorizza
oggi la distinzione tra armamento del partito e armamento delle masse in
due tempi.
Utilizzando la banale affermazione che le masse non si armano gradualisticamente,
che non bisogna illudersi di poter armare le masse prima che le masse vedano
il proprio armamento come unica condizione possibile per non essere sconfitte,
Lc arriva a negare che oggi c'è la condizione politica perché le masse
si approprino del problema del proprio armamento e nega che già oggi è necessaria
una direzione politico-militare del movimento.
Incredibilmente, per Lc la condizione migliore per «armare le masse» è l'attacco
frontale armato del nemico, nella forma ad esempio di un tentativo di golpe
non riuscito, o addirittura il «dopo golpe»: è questo il momento il cui
il «partito» può divenire direzione politico-militare delle masse. L'armamento
delle masse quindi non viene visto come il risultato di una crescita politica
dell'autonomia operaia e proletaria, guidata dalle sue avanguardie nello
scontro tra il movimento e lo Stato, che porta alla conquista di un numero
sempre maggiore di avanguardie e di strati operai alla prospettiva rivoluzionaria.
L'autonomia operaia è messa sullo sfondo; non ha per Lc un ruolo attivo
nel processo di armamento delle masse: vediamo in questo senso la teoria
e la pratica di Lc rispetto al Sd'o operaio; non si rifiuta, a parole,
il Sd'o operaio come struttura che raccoglie le avanguardie di massa
attorno alla difesa dei livelli di organizzazione della classe operaia,
i picchetti, i cortei che garantiscono il rifiuto degli straordinari ecc.,
sono ammessi come iniziativa di avanguardia che punta a coinvolgere direttamente
le masse.
Ma si nega che il Sd'o operaio può e deve diventare strumento importante
della direzione politico-militare sul proletariato verso lo scontro giocato
in termini offensivi, e ci si rifiuta di impegnare l'organizzazione
in questo senso.
Lc parla di Sd'o operaio a Brescia, e intende una struttura che fu sì
direzione maggioritaria del movimento in quella piazza, ma in senso tutto
difensivo, egemonizzata com'era, e non poteva essere altrimenti in quell'occasione,
dal sindacato. D'altra parte i nostri dirigenti ci avvisano: attenti
che al di fuori della nostra linea c'è solo il «militarismo», cioè una
prospettiva minoritaria e perdente dello scontro, che si pone fuori del
movimento. NOI PENSIAMO che questa alternativa tra la linea delle Br e quella
di Lc sia falsa: pensiamo invece che la vera alternativa sta, come sempre,
DENTRO il movimento, tra una linea opportunistica che nega la possibilità
OGGI di una modifica dei rapporti di forza, e una tendenza, potenzialmente
maggioritaria, del movimento di massa a porre dentro la crisi fin da oggi
la prospettiva di questa modifica dei rapporti di forza, e quindi del potere.
Noi pensiamo quindi che una direzione politica, per sviluppare una linea
rivoluzionaria, per dare una risposta alla domanda di partito che c'è
nel movimento, deve lavorare fin da subito su questa tendenza. D'altro
canto, invece, da parte della direzione di Lc esiste una continua sistematica
sottovalutazione dei propri compiti di avanguardia rivoluzionaria, che rischia
di arrivare a ridurre i compagni e le avanguardie in generale ad un esercito
di propagandisti e agitatori di obbiettivi, deresponsabilizzandoli sempre
di più dal ricercare una propria collocazione di ALTERNATIVA STRATEGICA
DENTRO IL MOVIMENTO.
Senza data da «Linea di condotta», n.1, Roma, Luglio-Ottobre 1975
Pubblichiamo i due documenti che, a partire dal dibattito precongressuale
svoltosi lo scorso inverno in Lotta continua, hanno costituito la piattaforma
politica su cui si sono venute aggregando alcune avanguardie operaie e proletarie
legate a quella organizzazione.
La battaglia politica «interna» di questi compagni si è conclusa con l'uscita
da Lotta continua.
Pubblichiamo, inoltre, il documento programmatico dei compagni dei «Comitati
comunisti di fabbrica» di Milano come informazione sulla linea politica
che caratterizza il lavoro di questi compagni.
1° Documento
Per Lotta continua è finito un processo. Le tesi per il Congresso dell'Organizzazione
si presentano con una chiarezza e omogeneità con cui è necessario confrontarsi,
su cui decidere.
Quello che, nelle linee della segreteria nazionale, sembrava in passato
distinto e anche contraddittorio, si presenta nelle tesi chiaro e omogeneo.
Il contenuto di documenti anche recenti scompare o addirittura viene confutato;
da «una premessa alla discussione su Lc» (gennaio 1974) a «e ora?» (intervento
al congresso di Aosta, ottobre 1974), le contraddizioni che erano presenti,
vengono ora superate con le tesi, con un'operazione di revisione della
stessa storia recente della lotta di classe.
Si parla tanto nelle tesi di «comunismo come movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente», ma l'unico movimento messo in atto dalla
segreteria sembra quello della cancellazione della realtà delle lotte tra
le classi.
Questa cancellazione porta alla rinuncia alla direzione rivoluzionaria sulla
lotta, porta a un non vedere la lotta.
Di fronte a ciò sta l'autonomia operaia.
Dal '68 a oggi, nello sviluppo delle lotte di classe. Lo sviluppo
dell'autonomia operaia
Dalla ribellione operaia di Valdagno nell'aprile '68, dalle lotte
della Pirelli e della Fiat dello stesso anno, dal movimento degli studenti,
dallo scontro violento tra movimento e Stato nell'eccidio di Avola alle
lotte di oggi noi vediamo non solo la continuità di un movimento di lotta,
ma la sua crescita. Questo movimento è la caratteristica politica principale
dello scontro in atto in questo Paese.
Abbiamo individuato le radici di questa esplosione in una serie di fattori:
dallo sviluppo della proletarizzazione alla insopportabilità cui la classe
operaia è giunta in fabbrica a partire dalla base dello sviluppo produttivo
e dalla organizzazione capitalistica del lavoro, dal peso sulle lotte del
proletariato italiano che ha avuto l'ampiezza internazionale delle lotte
proletarie, dalle lotte in Europa a quelle negli Usa, dal Vietnam alla Cina.
È la continuità politica di questo movimento che toglie di mezzo ogni visione
idealista e anche ogni visione economicista e primitiva che è stata presente.
Mentre la classe operaia nella grande e piccola fabbrica arriva a un antagonismo
completo che vede il proletario del tutto estraneo al mezzo di lavoro, nello
stesso tempo il sistema produttivo espelle in continuazione larghe masse
di proletari dalla loro stessa esistenza, dal salario.
La distribuzione del reddito avviene sempre più a sfavore dei salariati,
diminuisce il monte salario complessivo, la massa dei salari, dato che diminuisce
contemporaneamente e il numero dei salariati e il potere reale d'acquisto.
Aumento dello sfruttamento, carovita, diminuzione della massa dei salariati,
portano a un conflitto che esce dalla fabbrica, all'aumento dell'antagonismo
che diventa sempre più esplosivo e potente.
Il proletariato non ha più di fronte come ragione della sua miseria una
singola macchina, un singolo padrone, ma tutto il sistema produttivo!
È questo che noi chiamiamo «rifiuto del lavoro salariato», non si tratta
di rifiuto di produrre questo o quello (come nelle teorie revisioniste del
rifiuto di produrre armi per fare trattori) e neanche di «assenteismo».
Rifiuto del lavoro salariato è rifiuto dei rapporti sociali di produzione
e quindi scontro con l'apparato di repressione della borghesia, con
l'apparato di difesa e intensificazione dello sfruttamento.
Questo antagonismo è cresciuto e si è arricchito sulla base della crisi
economica, ha investito il sistema, ha accelerato la crisi politica che
è cresciuta sulla base di quella economica. L'andamento internazionale
della crisi, «crisi prolungata», «crisi strisciante», si è intrecciato con
la situazione specifica produttiva e dello scontro di classe in Italia,
ha consumato rapidamente le illusioni riformiste all'interno del movimento.
Sono cadute le tesi sullo sviluppo che segue la recessione, sono cadute
anche le teorie politiche che su di esse si reggevano. Dal '68 al '70
un periodo espansivo, nel '71 e parte del '72 recessione, il '73
di espansione attraverso l'inflazione, dalla metà del '74 l'inflazione
ormai sfrenata accompagnata dalla recessione, e cioè la depressione cronica.
Di pari passo la miriade di governi e di formule, dal monocolore del '68
al primo governo Rumor, dagli ultimi governi di questo personaggio al governo
Moro passando per la rottura del Psi, per le elezioni anticipate, per il
governo Andreotti, per le elezioni presidenziali con voto del Msi. Questa
instabilità è attraversata dalla lotta, dalla rivolta reazionaria di intere
sezioni della piccola borghesia, dall'utilizzazione da parte di tutta
la borghesia delle manovre della sua frazione golpista. Abbiamo visto, dunque,
logorarsi forze sociali e politiche, spazi rivendicativi tradizionali, sicurezze
sociali, spazi democratici e costituzionali e direzioni politiche, equilibri
e alleanze. Ma il movimento operaio fa eccezione in tutta questa degenerazione,
dalla continuità delle contraddizioni sviluppa non solo la sua continuità,
ma anche la sua determinazione politica. Dalla crisi economica e politica
trae la base materiale della sua crescita e della sua prospettiva, dalla
crisi della direzione politica revisionista e riformista trae la necessità
politica della sua organizzazione e direzione. Dallo scontro con l'apparato
di sicurezza capitalistico (dalla gerarchia di fabbrica alla gerarchia sociale,
dalla polizia all'esercito, dal ricatto istituzionale alle iniziative
golpiste, dall'esercito privato padronale alle bande fasciste, alla
truppa collettiva dei padroni) sviluppa la necessità della autodifesa, l'esperienza
della fine degli spazi tradizionali, la limitatezza della lotta economica,
la irrisorietà dell'organizzazione revisionista, la impotenza dell'organizzazione
sindacale e rivendicativa, di questa forma di lotta e organizzazione. È
questo movimento che noi definiamo un movimento autonomo dal capitale e
dal suo ciclo, autonomo del revisionismo e dallo Stato.
Con ciò intendendo uno sviluppo della lotta e della coscienza, dai livelli
di organizzazione autonomi all'autonomia e al suo grado nelle lotte
concrete. Questa è l'autonomia, questo è il senso e la prospettiva del
reale movimento sviluppatosi in sei anni di lotta in questo Paese. Le divergenze
nell'analisi concreta Proprio da qui cominciano le divergenze tra noi
e i documenti congressuali prodotti dalla Segreteria nazionale. Ormai non
annoteremo più, qui, come questi documenti siano omogenei in alto grado,
se non riferendo l'alto grado di opportunismo che vi è in questa omogeneità.
In «Una premessa... ecc. » si affermava sul luglio '70: «... lo sciopero
a oltranza della Fiat, che affossa definitivamente l'illusione del recupero
sindacale della classe operaia dopo i contratti... le proclamazioni di Berlinguer
sul rilancio produttivo... la revoca dello sciopero generale» rappresentano
una svolta; di questa svolta noi non abbiamo colto il senso, dunque quali
fossero i nostri compiti (fabbrica, spazio di partito) perché presi in altre
faccende (prendiamoci la città). È sembrato a tutti di vedere nel luglio
'70, con la revoca dello sciopero nazionale del 7, con le dichiarazioni
alla stampa estera di Berlinguer e i fondi del 9 e 10 luglio sull'«Unità»,
che il problema della repressione dura del movimento, della repressione
del rapporto positivo con il movimento di lotta e i suoi obiettivi che il
sindacato dal '69 andava perseguendo (delegati, assemblea in fabbrica
ecc.), fosse al centro della questione e anche di un nuovo equilibrio politico
raggiunto nel Partito comunista italiano. Al 12° Congresso del Pci la relazione
introduttiva tenuta da Longo svolgeva disorganicamente una serie di temi.
Il principale era quello del controllo del movimento (dell'anarchia
del movimento, come era detto) e del controllo delle ripercussioni dello
stesso all'interno del partito (anche la Fgci per esplicito), nonché
del controllo del Sindacato. Un congresso tenuto nel febbraio del '69
dove era evidente la scossa che il movimento era arrivato a provocare anche
nella relazione ufficiale. Una relazione dove l'altro termine centrale
della questione era il Sud (le rivolte del meridione), il blocco di potere
(di derivazione gramsciana), la via italiana al socialismo, con il problema
della neutralità tra i blocchi, ferma restando la parola d'ordine «fuori
l'Italia dalla Nato, fuori la Nato dall'Italia», e il rifiuto del
centralismo rispetto al Pcus (a partire dalla Cecoslovacchia). Il luglio
del '70 rappresenta una scelta rispetto alle perplessità del congresso.
La via italiana al socialismo e il blocco sociale di potere tra classe operaia,
contadini e piccola borghesia, diventerà la mozione del 13° congresso «per
un governo di svolta democratica», il «compromesso storico». Tale sviluppo
delle proposte politiche del Pci ha certamente una origine lontana, ma è
giusto segnarne la svolta proprio nel luglio '70, perché allora ebbero
la necessità - ma non la forza - di dichiararsi (di fronte a una borghesia
che chiedeva credibilità e controllo, repressione e frantumazione della
lotta).
Allora il movimento d'un sol colpo sperimentò la capitolazione e l'avventurismo
istituzionale del Pci (dimissioni governo Rumor) e a nulla valse chiamare
quella capitolazione come «una vittoria delle masse», come si affrettò a
fare il revisionismo. Certo un fronteggiamento così brutale del movimento
non poteva che essere la prova di una volontà di fondo.
Poi si sarebbe articolata una tattica che allontanasse la rottura, una tattica
che avesse come ipotesi l'imbrigliamento del movimento. Una ipotesi
conseguente alla natura della socialdemocrazia storica, una politica tanto
perdente quanto tragica per l'unità del movimento stesso, per il suo
sviluppo positivo, per l'organizzazione della sua forza rispetto al
nemico di classe e per la crescita delle contraddizioni. Lo sviluppo di
questa tattica sarà il compito del 13° congresso, là dove i documenti presentati
al dibattito saranno due. Uno scritto sull'«Unità» e non presente agli
atti congressuali (le ragioni non stanno in contraddizioni interne esplose,
ma in un mutamento tattico di linea di fronte al monocolore, alle elezioni
anticipate ecc.), l'altro come relazione ufficiale in quel congresso
tenuto a Milano praticamente a porte chiuse.
Fu il congresso della paura e della regia imposta all'intero partito
attraverso la paura (in quegli stessi giorni vi fu l'assassinio di Feltrinelli).
Rimane il problema generale della tattica del Pci, di cui ora ci siamo interessati
per la faccia rivolta al proletariato.
Una tattica rivolta a un nuovo «concordato» col sindacato con le proposte
di spartizione paritetica dei consigli di fabbrica, di elezione dei delegati
da parte dei soli iscritti al sindacato, fatto anche con l'isolamento
delle piccole fabbriche, prima messo in pratica e poi teorizzato in nome
delle alleanze. Una tattica fatta con la repressione delle lotte sulla casa
attraverso le regioni e i comuni (ricordiamoci della lotta per il parco
a Cinisello) e attraverso il lancio del Sunia, per arrivare fino ai decreti
delegati per la «cogestione » della scuola, per arrivare al tentativo di
cancellare le contraddizioni (vedi il sindacato-polizia) anche nell'ambito
dello Stato, attraverso la sua modifica parlamentare. Sì, certo, nel luglio
'70 vi fu una svolta nella lotta di classe.
Ciò che prima era contraddittorio del Pci, diventa, infatti, chiaro. In
«Una premessa alla discussione... ecc.» non si osa affermare il contrario,
si lascia invece intendere proprio questo.
Ma via libera verrà data a uno degli aspetti dell'ambiguità della «premessa»
in «E ora?», intervento al congresso di AO, nell'ottobre di questo anno.
«... è avvenuto che la classe operaia, nelle sue avanguardie di massa ha
attaccato frontalmente, nel '69-70, l'organizzazione di fabbrica,
e ha attaccato frontalmente una organizzazione storicamente maggioritaria
che si presentava con una carta da visita della retrocessione della autonomia
operaia a ingranaggio dello sviluppo capitalistico. Da allora in avanti...
il PCI e il sindacato corsero al recupero della classe operaia, ma dovettero
pagare un prezzo salato, e cioè in sostanza, la generalizzazione di contenuti,
forme di lotta, modi di organizzazione, dell'autonomia operaia, dalle
fabbriche maggiori alle minori, dalle zone di punta alle zone "arretrate"...».
Proprio il contrario della realtà, almeno della realtà che noi vediamo e
abbiamo visto stando in quelle lotte.
Ed è proprio il contrario di quello che si afferma più avanti nello stesso
intervento al congresso di AO. «... come sia difficile immaginare che la
minoranza rivoluzionaria diventi d'un colpo maggioranza, tanto meno
per via di duelli ideologici o di aggregazioni sorprendenti... tra tendenza
alla reazione borghese e la conquista della maggioranza del proletariato
alla direzione rivoluzionaria sta la lotta per la conquista alla direzione
rivoluzionaria del tessuto di organizzazione in cui si esprime la iniziativa
dal basso delle masse» ... «Dentro questa fase e alla luce dei suoi possibili
sbocchi, si pongono problemi e della crescita dell'organizzazione di
massa e della crescita della direzione politica generale, cioè del partito
rivoluzionario.
La prima, come espressione autonoma e unitaria della forza delle masse,
non può essere ridotta né alla sua versione sindacale... né tanto meno all'ipotesi
di un allargamento, o anche di una rigenerazione di organismi che sono nati
e si sono sviluppati come strumento ed espressione di una determinata organizzazione
politica... Già oggi, in molte fabbriche e nella proiezione della lotta
operaia fuori dalla fabbrica, soprattutto nei punti dove essa è più forte,
noi assistiamo alla spinta verso un rafforzamento dell'organizzazione
di massa... c'è soprattutto la risposta, sul terreno della organizzazione
di massa, ai compiti nuovi imposti dalla lotta...». La contraddizione verrà
superata, oggi, nelle tesi che teorizzano un Pci portatore delle esigenze
del movimento, ma prima ancora è stata imposta nella pratica politica dell'organizzazione.
L'esempio clamoroso dell'organizzazione sui «decreti delegati» e
del suo scontro con il movimento (ma la questione non starebbe qui) fa testo;
fa testo anche la posizione della organizzazione nel documento sulle lotte
sociali (relazione introduttiva 12 dicembre) dove il primo compito che i
compagni si pongono è il rapporto con il Sunia.
Fa testo in generale la linea politica che l'organizzazione ha sviluppato,
con più chiarezza, dalla «tregua salariale» dei cento giorni al governo
Rumor nell'estate del '73, all'autunno di lotta di quell'anno
venendo a oggi. Sulla tattica Piace molto, all'estensore delle tesi,
ripetere che il «comunismo è un movimento reale», e siccome non siamo tra
filosofi speculativi vediamo il perché. Tale affermazione di Marx (Ideologia
tedesca, 1845-46: «Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba
essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo
comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente») serve
nelle tesi come preliminare alla questione della tattica.
Marx la usava, in sostanza, contro gli idealisti e le teorie utopistiche
del tempo.
Così come poneva, nel 1848, il problema dei «Proletari e comunisti» nel
Manifesto del partito comunista: «I comunisti... nei vari stadi di sviluppo
che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano
sempre l'interesse del movimento complessivo... sono la parte più risoluta
dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti...
Lo scopo immediato dei comunisti è... formazione del proletariato in classe,
rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte
del proletariato». Se nelle tesi della organizzazione è chiaro che essere
reali significa assumere come un dato di fatto inamovibile la questione
del Pci - partito certamente maggioritario della classe - meno chiaro, anzi
del tutto oscuro, risulta il compito originale dei comunisti, della organizzazione
comunista in questa fase. Oppure i comunisti debbono prendere e rialzare
dal fango le bandiere lasciate cadere dal revisionismo solo pochi anni fa
(questione Nato), debbono fare le mosche cocchiere o i codisti, suggerire,
fare campagne, ampliare la parte sana delle parole d'ordine riformiste,
stare dentro alle scadenze generali con la continuità e l'arricchimento
dato da un programma di lotta alternativo (dio ce ne scampi!) ma urlando
«Troppo poco!»; «Più a sinistra!»; «Più firme!»; «Più energia compagni!»?
In tutte le proposte che emergono non una ci qualifica subito e qui davanti
alle masse come comunisti.
I marchingegni e lo prosopopea parolaia di partito riempie la bocca ma non
l'azione originaria dei comunisti.
Questo avviene quando si portano alle più chiare conseguenze le identificazioni
che fa la segreteria. E cioè il movimento è uguale al revisionismo.
Il Pci non solo è partito maggioritario della classe, ma vive positivamente
un rapporto con essa. Questa positività risale alla «svolta » del luglio
'70. Uscire da questo ambito è avventurista. Dare originalità all'azione
dei comunisti è inutile quanto massimalista. L'egemonia rivoluzionaria
sul movimento (quella che viene appunto, chiamata «conquista») si fa conquistando
il Pci. Niente altro dobbiamo fare. Non c'è più neanche la distinzione
tra tattica «diretta» e tattica «indiretta» dei comunisti, tra un confronto
diretto con le masse e, poi, uno scontro con il revisionismo, con le altre
forze politiche. Le varianti che vengono poste a questo problema centrale
sono, di volta in volta, più o meno opportune. Si dice che noi vogliamo
conquistare al programma operaio il Pci, si dice che noi vogliamo il Pci
al governo in una condizione in cui sia «ostaggio delle masse e del loro
programma» e non ostaggio della borghesia e del suo equilibrio politico.
Che rappresenti squilibrio e libertà per la classe operaia al massimo livello...
Ma se le ipotesi su cui ci si è mossi sono decadute celermente sotto la
spinta della lotta, i nostri compiti originali di comunisti, di organizzazione
comunista, sono venuti a sparire. La tregua dei cento giorni del governo
Rumor ci ha visto aver fede in un dibattito confederale che impostava la
trattativa, senza lotta alcuna, con il governo sulle pensioni. Intanto nelle
fabbriche si aprivano, nonostante la tregue, le lotte. Una lotta attorno
alla chiusura di una piccola fabbrica tessile di Cinisello, la FEDA, era
stata al centro di tutti e oltre i cento giorni della tregua.
Quella lotta - politicamente vincente - era stata una indicazione generale
allo scontro che la ristrutturazione capitalistica implicava, che la lotta
sul salario implicava. Solo a partire dall'unità che questo programma
rappresentava abbiamo potuto mettere in campo la forza operaia rivoluzionaria,
vincere lo scontro con le contraddizioni aperte nel Sindacato, vincere la
repressione revisionista, vincere lo scontro con lo Stato e il padrone.
Così erano una indicazione ed erano unitarie con il movimento le lotte di
reparto e di fabbrica direttamente promosse dai comunisti alla Magneti Marelli
in particolare. E gli esempi «locali» non sono limitativi se si unisce questo
movimento di lotta delle fabbriche sino alla generalizzazione della lotta
operaia nello sciopero lungo. Di fronte a questi dati del movimento, e di
fronte al fatto che l'organizzazione ne era direttamente implicata,
si è ricorso all'espediente della «esemplarità», dell'«eroismo»
e della «eccezionalità» di quella classe operaia. Tanto bastava a coprirsi
gli occhi. Per noi, invece, quelle lotte devono la loro caratteristica e
la loro importanza politica generale alla questione di linea che vi è stata
dietro e dentro.
Il pessimismo verso la capacità dei sindacati di generalizzare i contenuti
operai, l'ottimismo verso la maturità del movimento, la sua capacità
di direzione politica, di egemonia su parti consistenti della classe, la
sua forza nel sostenere lo scontro con il padronato, la sua capacità di
determinare una direzione politica mettendo in campo il potere operaio in
fabbrica, unico rapporto di forza reale in grado di governare revisionismo
e sindacato. Se qui ci siamo, nella lotta operaia di Torino, nel febbraio
della Fiat e dello sciopero lungo ci siamo solo come una forza «a fianco
fino in fondo» agli operai.
Altre forze espresse dal movimento, altre strutture che l'autonomia
si è data marciano, preparano la lotta, organizzano la lotta.
Questo lo possiamo vedere dalla tenuta del movimento, dall'organizzazione
che la lotta si dà. Il «Comitato di Lotta », la «ronda operaia» alle porte
di Mirafiori, la punizione dei capi, il «filtro» alle porte, il prolungamento
degli scioperi, i cortei dentro e fuori la fabbrica, infine, il «no» operaio
all'accordo e - subito - in una serie di reparti: nuovi obiettivi e
nuovi programmi. «Noi per loro siamo una incognita» dicono a Mirafiori gli
operai rispetto al Pci e al Sindacato.
Uno spettro si aggira, appunto, ed è l'autonomia operaia. È la forza
di questa lotta che sta di fronte ai padroni, e li sconsiglia dall'intraprendere
lo scontro frontale attraverso il «referendum». Anche il referendum si vince
a partire da questa generalizzazione della lotta operaia, da questa affermazione
della autonomia che produce i suoi effetti immediati sul Sindacato e sul
suo programma (salvo negarlo una volta tornati tempi per lui migliori),
sullo scontro politico all'interno della classe (il Pci travolto dalla
lotta cerca di reprimerla di continuo ma deve sottostare alla forza operaia
e alla sua organizzazione), sullo scontro generale di classe. O, il «referendum»
si vince, secondo la segreteria, con le campagne anti-clerico-fasciste sulla
Pagliuca? È questa forza operaia dello sciopero lungo che ininterrottamente,
con le sue caratteristiche e con la sua spinta all'organizzazione e
all'autorganizzazione, è presente come «l'incognita» anche delle
fasi di tregua elettorale, a saldare la lotta di fabbrica e reparto, lotta
nei quartieri e lotta di scuola. Nel luglio '74 anche la contraddizione
del sindacato, che è una cosa a parte rispetto a quella del Pci, arriva
a una svolta. Noi rifiutiamo una identificazione tra sindacato e partito.
Questa identificazione ha fatto comodo alla segreteria nazionale quando,
per spiegare il tentativo del Pci di cavalcare il movimento, ha fatto tutt'uno
tra Pci e sindacato. Spostando, naturalmente, le date. Non si capirebbe,
allora, da dove vengono fuori delegati e assemblee, 40 ore e salario nei
contratti del '68-69, se non è chiara la diversità delle due organizzazioni
operaie. Ma si può pretendere tale distinzione da chi, in nome della tattica,
tutto confonde nell'immediato? Noi pretendiamo di porlo alla chiarezza
del dibattito anche per affrontare un altro dei cardini della tattica di
Lc. La questione cioè del «movimento dei delegati». Non c'è dubbio che
la terza posizione presente nel dibattito della segreteria nazionale rispetto
ai nostri compiti nella fase attuale, sia stata per lungo tempo quella di
mettere al centro il nostro rapporto con il cosiddetto movimento dei delegati.
Non credeva questa parte a un rapporto col revisionismo nei termini cui
oggi si è arrivati, né credeva al rapporto con l'organizzazione di massa
operaia intesa come autodirezione politica (transitoria ma che ricompare
continuamente) che l'autonomia operaia si dà, ipotizzava invece un rapporto,
appunto, con il movimento dei delegati. L'assemblea dei delegati a Rimini
è stata una doccia fredda per questa ipotesi, tanto patetica da esprimersi
con le «lettere aperte ai delegati». Siamo quasi arrivati al punto di fare
nelle nostre parole d'ordine d'autunno il centro su quella di «tutto
il potere ai delegati». L'origine di tanto entusiasmo verso i delegati
sta nella sopravvalutazione, non si capisce quanto teorica e quanto di analisi
concreta, dell'autonomia del sindacato dalle linee politiche egemoni,
o per lo meno dall'autonomia di quella struttura sindacale e rivendicativa
più legata alle esigenze operaie, alle lotte operaie di reparto e di fabbrica.
A meno che si tratti di sindacati fascisti, e non è proprio il caso, la
tattica dei comunisti fa sempre i conti con l'organizzazione rivendicativa
della classe, con questi suoi livelli di organizzazione. Il problema era
e rimane che, o siamo (eravamo) in grado di determinare a partire dal movimento
un rapporto positivo tra questo e le strutture dei sindacati (va bene, a
partire dai delegati) oppure era inutile partire da quello che sostanzialmente
è un effetto. O eravamo e siamo in grado di assumere la direzione del movimento,
di essere un elemento determinante, uno strumento centrale dell'autonomia
operaia e - dunque - con questa forza causiamo modifiche e contraddizioni,
oppure ci diamo alle prime fantasie. Il Pci, intanto, appoggia e fa passare
per la seconda volta in quattro anni il secondo decreto generale della borghesia,
la tassa che abbassa di colpo di un quinto il potere d'acquisto del
salario.
L'aveva fatto Colombo, oggi lo rifà Rumor con una crisi aggravata dalla
guerra commerciale internazionale, dall'aumento delle materie prime,
dalla manovra dell'inflazione e svalutazione, dalla guerra del Mediterraneo,
preparando la ristrutturazione e la recessione (la compressione dei consumi,
depressione) dell'autunno. Ancora una volta chi risponde al governo
Rumor?
L'elenco delle fabbriche che entrano in lotta dandole una scadenza precisa,
è noto ai compagni.
Così come è noto, a tutti i compagni dell'organizzazione, quali fabbriche
hanno guidato la rivolta in piazza al sindacato a Milano, nello sciopero
regionale del 10 luglio, il corteo alla Prefettura e quali fabbriche hanno
tenuto la lotta politica per tutto luglio opponendosi alla smobilitazione
degli scioperi generali alle ultime ore, preparando così la vigilanza per
l'agosto della strage dopo il maggio di Brescia. I compiti dei comunisti
nella fase attuale Siamo certamente una forza minoritaria nel movimento
operaio. Un movimento operaio che ha visto e vede la sua forza politica
di maggioranza entrare sempre più chiaramente in conflitto con le proprie
esigenze; con la lotta stessa, con l'esistere dei propri tradizionali
margini. Oggi, infatti, è in gioco lo stato complessivo della classe.
Le lotte vengono subito a un antagonismo chiaro, l'organizzazione della
forza nella lotta ha fatto e deve fare salti qualitativi. Da principio vive
nella nostra pratica quanto già afferma Marx nel Manifesto del partito comunista:
«I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri
partiti operai. Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato
nel suo insieme». I comunisti sono oggi una forza minoritaria ma esprimono
il programma complessivo del proletariato, le sue esigenze pratiche e strategiche.
Imporre l'egemonia rivoluzionaria all'interno movimento è il compito
principale in questa fase, perché ciò è necessario al proletariato nello
scontro di classe in atto. Tale compito tiene conto del fatto che non solo
e non tanto a un mutamento «ideologico» dei revisionisti si deve il loro
passaggio alle posizioni della socialdemocrazia storica, quanto all'insorgere
di contraddizioni reali nello scontro di classe che li vede sempre più necessariamente
e materialmente spinti dalla parte opposta delle esigenze del movimento.
Seguirli su questa strada vuole dire per il proletariato camminare la strada
della propria rovina. In mancanza di una forza dirigente rivoluzionaria
il Cile, sulla drammatica esperienza di quella classe operaia, insegna a
tutto il proletariato come le contraddizioni del revisionismo non significhino
che sangue e lacrime per il movimento operaio. C'è un solo proletario
in Italia che possa essere tranquillizzato dalle affermazioni di Cossutta
su «Rinascita» durante la lunga crisi di governo che ha preceduto il bicolore
Moro-La Malfa? Egli scrive: «... ogni comunista sa ciò che deve fare in
simili circostanze e non varrebbe perciò la pena - se soltanto ai nostri
compagni dovessimo rivolgerci - di ritornarci sopra. Ma è bene che tutti
ricordino quanto abbiamo solennemente affermato... chiunque volesse tentare
al nostro regime democratico... deve fare i conti col fatto che milioni
e milioni di lavoratori, di democratici, di antifascisti, di giovani, saprebbero
scendere sulle piazze e nelle strade, combattendo con tutti i mezzi necessari
per difendere la libertà e per vincere...». Andiamo, nessuno ci crede. Di
parole non si tratta, ma di cose concrete. Come si può determinare una conseguente
vigilanza antigolpista (forma di lotta adeguata) a partire dal fatto che
il proletariato dovrebbe difendere con convinzione questo «nostro regime
democratico», cioè questo regime di fame, disoccupazione e repressione antioperaia?
La vigilanza e la lotta vincente al fascismo e al golpismo sono nella misura
in cui il proletariato non vi vede che una necessaria contraddizione che
la sua lotta si trova di fronte alla marcia verso l'emancipazione.
Non vedendovi - dunque - un «primo» tempo di difesa costituzionale (tattica)
e un secondo» tempo di lotta rivoluzionaria, ma una contraddizione organica
in quella guerra civile prolungata che è la caratteristica dello scontro
di classe in questa fase, sulla base dell'analisi e dell'esperienza
della «crisi prolungata», della crescente rigidità autoritaria della borghesia,
delle sue contraddizioni interne in questa linea generale. Così il revisionismo
non può, dunque non vuole, agire diversamente dal contrapporsi al movimento
di lotta e all'autonomia operaia, la borghesia non può, dunque non vuole,
che rendere chiara tutta la sua forza repressiva e autoritaria, tutto il
peso della sua macchina repressiva. Dalla repressione materiale ed economica
sul salario e la condizione di lavoro, alla repressione di reparto sulla
base della ristrutturazione, alla repressione dei disoccupati, alla repressione
delle lotte, delle organizzazioni di lotta. San Basilio insegna. Forme di
lotta adeguate al livello di coscienza che il movimento reale, l'acuirsi
dell'antagonismo, la scomparsa dei margini tradizionali, hanno prodotto
nel proletariato.
Forme di lotta e di organizzazione che lo scontro in atto prevede.
Noi crediamo che questo sia il secondo dato generale nella situazione attuale.
Il primo è quello della ulteriore fase di socialdemocratizzazione storica
del Pci, che è conseguenza delle condizioni materiali poste dallo scontro.
Non si tratta, dunque, di distinguere sapientemente o meno il problema dell'armamento
delle masse e il problema dell'armamento del Partito.
Si tratta di prendere atto che il Partito non c'è, che il dato che presenta
il movimento è quello del propagarsi e arricchirsi di forme di autorganizzazione
conseguenti ai contenuti e alle forme di lotta, allo scontro che è necessario.
E si tratta ancora una volta di affermare che il marxismo richiede un'analisi
assolutamente storica delle forme di lotta. «Porre questa questione al di
fuori delle condizioni storiche concrete significa non comprendere l'abc
del materialismo dialettico».
«II nostro compito storico consiste nel contribuire, secondo le nostre forze,
ad un giusto apprezzamento teorico delle nuove forme di lotta suggerite
dalla vita; nella lotta implacabile contro le formule stereotipe e i pregiudizi,
che impediscono agli operai coscienti di impostare in modo giusto il problema»
(Lenin - Ottobre 1906). Ogni lotta chiama oggi a forme e a livelli di organizzazioni
qualitativamente superiori rispetto al passato. Basta mettersi a imparare
dalle masse, dalla Fiat a San Basilio. Ma Lotta continua non vuole imparare
dalle masse, oggi, ma dalla tradizione del movimento operaio, identificando
questa tradizione con il Pci. Lo fa per confutare gli errori teorici e pratici
delle esperienze latino-americane, lo fa dovunque nella «sua» iniziativa
e nella prospettiva della stessa. C'è forse un solo proletario che si
tranquillizzi sentendo affermare nelle tesi di Lotta continua una sua straordinaria
originalità rispetto alla linea revisionista?
Una originalità che si esprime così: «Nella lotta antifascista dove la linea
della delega o della pressione sullo Stato si oppone alla linea della pratica
di massa della lotta antifascista (la nota raccolta delle firme, ndr). Si
esprime sul terreno della democrazia dove la linea della razionalizzazione
delle istituzioni statali si oppone alla linea dell'alternativa di classe
al loro potere, come avviene esemplarmente sul problema delle forze armate,
della organizzazione di massa della vigilanza antigolpista e contro il terrorismo
nero, nella mobilitazione di massa contro la strategia della tensione. Si
esprime sul terreno elettorale, dove la linea del baratto fra democrazia
borghese e autonomia di classe si oppone alla linea della rottura del regime
capitale borghese». Ma tutti noi sappiamo quali erano le direttive dell'organizzazione
nei «giorni del golpe», a tutti è noto lo smantellamento anche di quel poco
apparato che l'organizzazione si era data sia pure con peccati di origine,
a tutti è nota l'affermazione autorevole che «altre Monza» (fatti di
Monza della primavera '74) ci avrebbero fatto perdere il referendum!
Come il Pci porta avventura e sventura alle masse, la segreteria vuole seguire
questa stessa strada, ne muta la sostanza, appunto, con una più o meno pomposa
fraseologia. Ma vediamo un'altra questione discriminante. L'ipotesi
di accordo-quadro tra governo, Confindustria, sindacati ha un respiro breve.
La linea politica che sta alla base è estremamente chiara nella relazione
al 14° congresso del Pci, nella precedente conferenza delle piccole fabbriche
tenuta a Milano dal Pci, nella caratteristica della battaglia sulla contingenza.
Il Pci marcia per essere non solo nella teoria, ma anche nella sua rappresentatività
politica, il partito di settori e frammenti di proletariato, di piccola
borghesia contadina, imprenditoriale e commerciale. Cioè un partito di cui
è in discussione la caratteristica reale di partito della maggioranza del
proletariato. Di fronte alla crisi sociale che la borghesia tende a creare
con la frantumazione del proletariato, con lo strumento della ristrutturazione,
della disoccupazione, il Pci ha accettato come un dato di fatto la divisione
della classe operaia. E questo rende irrecuperabile il Pci a una gestione
generale del programma delle masse. Non affermare questa realtà significa
seminare illusioni, causare una passività nei compagni e nelle masse stesse,
allontanare la responsabilità dei comunisti dai propri compiti, favorire
il processo di degenerazione e miseria complessiva della classe su cui punta
la borghesia. Di fronte allo sciopero lungo sarebbero dovute cadere le perplessità,
si fa per dire, sulla priorità della lotta operaia e sul suo centro nel
reparto nella fabbrica.
Questo centro lo si affermava a livello di principio, ci si gettava nella
pratica in un frenetico elettoralismo referendario, dimenticando ciò che
le masse avevano appena finito di ricordare con la lotta. Come passare da
minoranza a maggioranza, come estendere la direzione rivoluzionaria sul
proletariato, come creare il partito, in che rapporto con la forza operaia.
Anche il salario garantito, quella parola d'ordine che «vuol dire tutto»,
espressione di esigenze delle masse, che comprende una vecchia affermazione
del movimento anarco-sindacalista (salario secondo i bisogni!), che comprende
un po' di comunismo utopico, viene a cadere di fronte all'assorbimento
che ne fa la borghesia internazionale e il sindacato. Eppure il tanto citato
Marx aveva messo in guardia i proletari da questa precisa utopia. Ma non
è qui il punto. Il punto sta nell'aver ipotecato in tal grado il futuro,
con la straordinaria visione di un Pci al governo portatore del programma
operaio, che anche il non programmabile è stato ficcato dentro; tanto, a
chi si deve rispondere?
Hanno dovuto rispondere alle masse i compagni nelle fabbriche di fronte
all'urto della ristrutturazione, alla cassa integrazione, alle cause
e agli effetti politici dello scontro. Più la lotta di classe cresce nel
suo antagonismo, più chiare alle masse (prima di tutto attraverso la loro
esperienza) si fanno le posizioni opportuniste, gli elementi di una linea
tanto sbagliata quanto «creativa». La flessione secca del movimento nel
suo centro, alla Fiat, all'Alfa, il silenzio operaio nelle assemblee,
il rifiuto operaio di entrare nel merito, la mancanza di una chiarezza politica
precedente e di una direzione adeguata allo scontro, sono i fatti che abbiamo
di fronte. Tutto è perduto?
No certo, risponde la segreteria, il movimento va per salti, l'organicità
la trova nel mettere in positivo il revisionismo. No certo, rispondiamo
noi, che abbiamo costruito lotte e organizzazione proprio su questo terreno
di scontro, ponendo non illusioni ma analisi concrete di fronte al proletariato,
compiti precisi di cui farsi carico, cercando di cogliere nelle fasi della
lotta quegli elementi non solo generali, ma anche contingenti, con cui la
classe operaia cerca di unire là dove il padrone e la caratteristica della
crisi potrebbero dividere. Unire le lotte, unire i livelli di organizzazione
e autorganizzazione, vedendo nella necessità continua di offensiva della
lotta il suo valore. Vedendo nel tentativo di crisi sociale e di divisione
messo in atto dal capitale non un terreno «sfavorevole» ma il terreno concreto
su cui misurarsi, l'estensione in quantità e qualità dello scontro.
Così rispetto all'autonomia e al suo sviluppo nella lotta noi poniamo
il problema della crescita dei comunisti nel movimento, come direzione dello
stesso, poniamo il problema della formazione del partito rivoluzionario.
Così rispetto allo sviluppo sociale della crisi, noi poniamo il problema
della direzione sul territorio degli strati autonomi della classe, della
direziono operaia già provata da lunghi anni di lotta in fabbrica, dopo
aver già lì esercitato e arricchito quel potere e quelle forme di lotta
che si dovranno sviluppare, con un salto di qualità, sul territorio, verso
gli altri proletari, verso le piccole fabbriche, verso i quartieri e gli
studenti. L'alternativa è perdere quello scontro che si pone oggi, lo
scontro con il potere politico complessivo della borghesia, lo Stato (ed
è inutile parlare ormai delle «volanti» di quartiere a Milano, del dispiegamento
repressivo a San Basilio, dell'inquadramento nella cosiddetta «criminalità
politica» di queste lotte). Questi compiti ha cercato di cominciare ad assumerseli
la «ronda operaia». Le contraddizioni sono arrivate a un tale punto che
oggi non è possibile al proletariato praticare una lotta e degli obiettivi
che siano accettabili, né tanto meno «stimolanti» per il sistema. Così come
non c'è uno spazio puramente rivendicativo per trattare con i padroni,
non c'è possibilità di dividere la lotta dai suoi immediati e contemporanei
aspetti politici. La ronda viene organizzata e praticata per unificare il
proletariato del territorio sotto la guida delle avanguardie più coscienti
di fabbrica. Se non c'è questa forza diventa un altro scherzo sindacale
la battaglia sull'orario di lavoro (per esempio). Ma questa forza per
essere efficace deve praticare una tale rottura da scontrarsi con l'insieme
del sistema. Anche l'analisi che c'è dietro la proposta delle ronde
operaie parte dalla sicurezza che la crisi politica ed economica si aggraverà,
che la mediazione revisionista e sindacale tra le esigenze delle masse e
il capitale e lo Stato ha solo uno spazio sempre più ristretto e su cui
è bene non fare affidamento e che il proletariato si deve prendere la briga
di gestire le contraddizioni creandosi anche nuovi strumenti. È per questo
che nella ronda noi vediamo uno strumento di prospettiva, non solo di efficacia
immediata, cosa che ha già dimostrato ampiamente nella battaglia contro
gli straordinari. È chiaro a tutti, ed è stato chiaro anche nelle ultime
analisi dell'organizzazione, che sulla ristrutturazione, sui suoi elementi,
dal reparto, alla piccola fabbrica, ai «rami secchi», alla ristrutturazione
«in attivo» dove la remunerazione del capitale rispetto alla macchina è
direttamente legata col numero di operai dei quali la macchina distrugge
resistenza, non è possibile trattare. Quello che piega il bastone da una
parte o dall'altra è la messa in campo della forza politica delle classi.
Ogni problema particolare porta a problemi generali. Così nelle piccole
fabbriche quando si incrina il piano di disorganizzazione della forza operaia
che il Pci vorrebbe realizzare, mentre il contratto del '72-73 ha reso
«lecito» l' abbandono sindacale, è il coordinamento di lotta delle piccole
fabbriche che nasce come direzione politica, come centro di riferimento
ai settori di avanguardia della classe. Così è per la necessaria ripresa
della lotta di reparto e di fabbrica di fronte alla devastazione che la
ristrutturazione tenta sui gruppi omogenei. I punti sono quelli del fare
politica nei reparti, di contrapporre il potere operaio alle gerarchie in
modo concreto, espellere i revisionisti dalle masse o costringerli a mettersi
alla coda. Come nei reparti la lotta alla ristrutturazione dovrà essere
condotta dai comitati operai di reparto, nei quartieri sarà il comitato
di lotta in contrapposizione ai consigli di quartiere del Sunia-Pci. Così
questo terreno è già stato acquisito nelle forme di lotta e organizzazione
del proletariato nella questione sui trasporti.
Scrivono le compagne di una sezione: «l'atmosfera nella quale siamo
state accolte a Treviglio era frenetica, il dibattito altissimo, gruppi
di pendolari discutevano fra loro l'organizzazione delle staffette,
altri si ponevano il problema più generale della difesa e della continuità
della lotta...». L'organizzazione della forza operaia si lega alla constatazione
che il proletariato deve «contare sulle proprie forze», deve legare lavoro
politico legale e illegale, non perché «la lotta di classe è sempre illegale»,
ma perché questo è uno stato imposto dalla situazione e dalle contraddizioni
concrete che si sviluppano. La strada per la conquista della maggioranza
e dell'unità del proletariato è qui, in un lavoro politico che parta
dall'autonomia e dai suoi livelli di organizzazione. Occorre una concezione
dello scontro che supera l'ovvia affermazione che il movimento procede
«per salti» vedendo non solo la continuità strategica generale del movimento
stesso, ma anche il problema di chi, cosa e in quali condizioni si prepari
il «salto». Solo così è possibile pensare in termini non di parole d'ordine
(ancora) ma in termini di sviluppo reale della lotta sul salario, sulla
riduzione generale dell'orario di lavoro, lotta che abbia come gambe
su cui camminare i contratti, anzi, la rottura dei contratti. Non è una
cosa meccanica (forza pubblica uguale forza sindacale), ma una valutazione
del significato che hanno assunto i contratti negli ultimi anni per la classe
operaia italiana. Sulla questione dello Stato e della prospettiva Dunque
il Pci al governo. Questa ipotesi è diventata l'unica su cui si muove
l'organizzazione. L'identificazione tra il Pci e il movimento, il
giudizio per cui il Pci è costretto a vivere un rapporto positivo, sempre,
con la classe, questi discorsi vengono motivati con una analisi dei tempi
della crisi.
Questa analisi era più chiara l'anno scorso. Nell'autunno e nell'inverno
della «crisi petrolifera» si è toccato il punto in cui il quotidiano parlava,
nei suoi articoli di fondo, di nazionalizzazione delle raffinerie ecc. Allora
sembrava che addirittura si fosse arrivati a un programma da «tesi di aprile»,
in una fase di dualismo di potere di breve durata. Oggi a ogni caduta della
crisi economica vediamo riemergere il culmine di questo discorso: il Pci
al governo. Questa è l'indicazione principale, su di essa si muove,
per la Segreteria nazionale, la storia e il futuro della classe operaia;
i compiti dei rivoluzionari comunisti sono quelli di favorire e sollecitare
la prima delle due fasi, quella del governo di Unità Popolare. Come per
l'armamento, come per il potere, anche il partito sarà un problema non
di oggi ma di un domani di libertà per la classe operaia e di «instabilità»
del potere. Per oggi i comunisti devono rimanere minoranza, devono puntare
alla maggioranza solo intendendo, dietro questo termine, il Pci, l'influenza
su di esso, il «programma proletario» di cui esso si farà portatore. Noi
diciamo che la costruzione del partito è un compito di oggi, che la conquista
della maggioranza del proletariato, la costruzione della sua unità, lo sviluppo
della sua risposta offensiva sul piano legale e illegale, è un compito di
oggi. Forse ci divide un'analisi «merceologica» (come si dice nella
tesi sulla forza) della crisi? Noi non vediamo nella crisi un fatto che
si risolve sulla base delle difficoltà economiche, guerra commerciale, rottura
dell'equilibrio (provvisorio ma esistente) tra capitale e salario, sulla
base di un movimento di capitale che non sia nello stesso tempo un movimento
di classi e di forze politiche. Se la soluzione della crisi fosse qui avrebbero
ragione gli economisti borghesi e riformisti, avrebbe ragione la borghesia
che è cieca perché, pur vedendo il problema di «calcolo economico», non
vede e non può vedere lo sviluppo dello scontro politico, non può valutarlo
se non negandosi in quanto classe portatrice di determinati modi e rapporti
di produzione. Noi vediamo che la politica prevale, che tra crisi economica
e crisi politica l'aspetto determinante diventa il secondo.
Di questo ci siamo convinti guardando al movimento di lotta di questi anni,
all'Autonomia operaia. È questo che rende la borghesia incapace di governare
la crisi, è questo che non dà prospettive di programmazione, non dà prospettive
ai rimedi via via escogitati dai padroni. Solo la positività del partito,
la sua azione complessiva, possono far sì che il Pci al governo sia positivo
per le masse, in uno stato di emergenza determinato dal fatto che le lotte
del proletariato crescano in misura incontrollabile. Solo il partito è in
grado di impedire che la socialdemocrazia diventi per il proletariato impotenza
strategica e, nella sua adesione all'analisi e alla prospettiva borghese
della crisi, diventi la levatrice della tragedia del proletariato come in
Cile.
Il problema della maggioranza, dell'unità, del potere, si pone quindi
oggi, non nella «seconda fase». Il Pci, del resto, al governo c'è già.
C'è per la solidarietà «nazionale» di cui canta il ritornello dal luglio
'70. Il Pci ha sviluppato la tattica gramsciana; dopo il fallimento
della rivoluzione nel '20, la conquista del potere «casamatta dopo casamatta»
è diventata la cogestione degli Enti Locali, della scuola, del potere sindacale
in azienda, nel Paese, nello Stato (Polizia). Una lunga marcia attraverso
le istituzioni che se non altro ci deve fare allargare il discorso Dc-Stato,
che viene fatto nella tesi sullo Stato, al discorso Dc+Psi+Psdi ecc. +Pci
= Stato. Ma Dc-Stato serve ad affermare che la crisi dello Stato coincide
con la crisi della Dc. Questa affermazione o è banale o è un ulteriore errore.
Il capitale non usa, tutti lo sappiamo, come sua mediazione politica soltanto
la Dc, o soltanto il fascismo, o soltanto l'esercito . Vediamo oggi
articolarsi lo schieramento. Dall'uso del «golpe», all'intervento
diretto della Confindustria nell'ultimo governo, al rilancio delle mezze
ali (Tanassi e La Malfa), vediamo i «governi» Pci-Confindustria-Sindacato,
Pci-Confapi-Sindacato. Questo discorso serve ad affermare che crisi della
Dc e crisi dello Stato non coincidono, che ai rivoluzionari spetta il compito
di determinare una svolta nel processo della crisi.
L'autonomia come fatto legato al movimento di lotta, come svincolo nei
fatti e nella coscienza del proletariato dal ciclo economico, come autonomia
dal capitale, dallo Stato e dal revisionismo è la base di questo discorso.
Non è ancora la realtà organizzata del movimento. Non siamo d'accordo
su quanto si afferma nel paragrafo I della tesi sulla forza: «La teoria
marxista dello Stato costituisce il fondamento da cui deriva la necessità
per il movimento comunista di confrontarsi con il problema della violenza».
Ma il problema è quello della realtà quotidiana, non della teoria. La guerra
civile è presente nella situazione nazionale e internazionale come un elemento
della fase e con questo elemento la nostra tattica si deve confrontare.
C'è invece la teoria della conquista di «casamatta dopo casamatta»,
oggi il Sid, poi la Nato, poi il Msi. In realtà il processo di disgregazione
dello Stato può essere messo in moto solo da una forza lucida e cosciente,
basata sull' autonomia operaia, sui suoi livelli più alti di lotta.
Lo sbocco di questa fase, rivoluzione o controrivoluzione, vengono decisi
da l'una o da l'altra prospettiva. Per finire, compagni! Se la nostra
critica alle tesi, alla linea politica dell'organizzazione sembra dura
non abbiamo che da rispondere che tanto più dura è la fase della lotta di
classe che stiamo affrontando, che nella misura in cui ci sentiamo responsabili
verso le masse, nella misura in cui con esse abbiamo stabilito un rapporto
basato sul lavoro politico, che in rapporto a questo livello interveniamo
nel dibattito. Ogni opportunismo è dunque fuori luogo. Se dovremo fare autocritica,
se questo sconvolgerà atteggiamento e convinzioni dei compagni, se questo
imporrà cambiamenti di prospettiva, proponendo il problema di nuovi strumenti
o rifondazione degli stessi, non abbiamo che da rispondere: «II comunismo
è un movimento reale!».
Dicembre 1974 da «Linea di condotta», n. 1, Roma,
Luglio-Ottobre 1975
Il nostro ruolo, la nostra area
(...) Distinguiamo il ruolo del lavoro teorico da quello della militanza
complessiva. La teoria è una pratica determinata dalla politica, ed è un
momento della politica, luogo di unificazione delle pratiche.
Il nostro ruolo specifico è quello di leggere la forma nuova della composizione
operaia, la forma che in questa assume il bisogno comunista, e il modo in
cui in questa figura nuova si articola la possibilità della pratica organizzativa.
Il nostro ruolo come collettivo è un ruolo di riflessione, ridimensione,
ridefinizione. Ma questo ruolo si realizza e si articola in un contesto
politico che lo determina e lo significa.
È questo contesto il nostro referente. E precisamente il nostro referente
è - oggi - il processo di disgregazione del quadro politico dalle lotte
del '68, '69, '70, il processo di formazione di una leva rivoluzionaria
di massa presente nel corpo sociale proletario, che trova i suoi punti di
forza, oltre che nel giovane operaio di linea, estraneo al suo lavoro, nella
nuova classe operaia tecnico-scientifica, negli operatori dell'intelligenza
produttiva.
Questo referente si costituisce in soggetto che pone in essere la possibilità
stessa della nostra operatività teorica. La politica fonda la pratica specifica.
A partire da questa distinzione della pratica specifica diviene quindi possibile
progettare l'unificazione delle pratiche nella politica, intesa come
attività di trasformazione reale, complessiva. Ma l'unificazione è un
momento diverso dall'approfondimento specifico, e si elegge un luogo
separato. La pratica organizzativa, la modificazione organizzativa della
realtà di classe si svolge entro un luogo differente da quello della modificazione
teorica della realtà. Noi rivendichiamo la specificità della nostra operatività,
ma ne rivendichiamo al contempo la integrale operatività: è lo stesso soggetto
che è all'opera entro tutti gli ambiti della pratica di classe. D'altra
parte, però, ricerchiamo una politicità militante, riconoscendoci entro
un'area (nella quale svolgiamo un luogo specifico di trasformazione
teorico-linguistica e un ruolo complessivo, di trasformazione organizzativa)
che è dell'autonomia. Uno sforzo che stiamo compiendo è quello di definire
il luogo teorico del riformismo, e del neo-riformismo, da una critica dello
statuto teorico dell'istituzionalismo riformista di vecchio e di nuovo
tipo. Il riformismo istituzionale si colloca dentro lo spazio dell'idealismo
e del dogmatismo, in quanto la politica è ridotta alla sfera (ipostatizzata)
del «politico», definita da una serie di formule, di categorie sedimentate
dal passato, ma entro cui il presente deve essere costretto, pena la sua
scomunica, sotto l'infame accusa di «spontaneismo». Il partito, il rapporto
avanguardia-massa, la presa del potere, il socialismo, sono gli stereotipi
che occultano il reale svolgimento dei rapporti interni alla classe operaia.
La pratica massiccia delle nuove figure sociali di classe destituisce di
senso questi stereotipi, e la loro carcassa resta là, utilizzabile soltanto
per i travestimenti del riformismo di parte capitalistica, per i suoi progetti
di sottomissione politica del lavoro.
Il luogo teorico dell'autonomia operaia è invece la ricostruzione del
materialismo. È Marx che pone le basi per una definizione materialistica
del rapporto fra classe operaia e organizzazione, allo stesso modo che pone
le basi (e con lo stesso gesto) per una definizione materialistica del rapporto
fra movimento reale e pensiero. Approfondire la specificità del nostro terreno
di pratica; riconoscere il luogo di unificazione della pratiche nella politica.
Trasformare il modo di produzione del testo, il modo di produzione teorico,
dentro il movimento politico. Perché l'uno si divide in due. Quindi
trasformare la struttura del movimento politico con l'intervento della
rottura organizzativa, della rottura teorica, in quel momento in cui la
pratica specifica si scioglie dentro l'unificazione della politica -
senza smettere la sua autonomia e irriducibilità in quanto specifico. Perché
«all'interno dell'unità si sviluppa una lotta, e senza lotta non
vi è unità».
da «Collettivi Linea di Condotta», n. 1, Bologna, Novembre
1974
Le caratteristiche del movimento di lotta e i nostri compiti
II nostro giudizio sulla fase attuale, parte dell'avere
riconosciuto una qualità nuova in un movimento che matura su condizioni
di lotta che sono nuove.
Individuiamo una svolta nel rapporto movimento-sindacato che vediamo formalmente
fissato con lo sciopero-inutile del 24 luglio e l'accettazione da parte
dei sindacati del decretone Rumor.
Tale svolta vi è nello stesso tempo nel rapporto movimento-sinistra istituzionale.
Questo rapporto nuovo con la sinistra istituzionale è nei centri dei problemi
politici che il movimento deve oggi affrontare.
Prima di tutto il rapporto con il Partito comunista italiano, e poi il rapporto
stesso con la sinistra rivoluzionaria istituzionalizzata. Soltanto il Pci,
con la proposta del «compromesso storico», è riuscito a superare il limite
sindacale in cui si collocavano, nonostante tutto, la proposta revisionista
e la proposta «rivoluzionaria» al movimento. Ciò affermando, tuttavia, noi
affermiamo il limite politico, sociale e di prospettiva con cui il Pci,
prima del «compromesso», si è tradizionalmente presentato alla classe e
la inconsistenza «rivoluzionaria» dei gruppi, che altro non hanno fatto
- nella stragrande maggioranza delle loro iniziative - che svolgere una
funzione di sinistra sindacale, cioè storicamente limitata e ristretta,
destinata al fallimento nello sviluppo dello scontro di classe. Sino al
luglio '74 il movimento riesce come fatto generale a gestire e in parte
ad arricchire quanto lo «sciopero lungo», lo sciopero e l'organizzazione
operaia alla Fiat avevano determinato nell'inverno '73-'74.
Dopo luglio, settembre è la definitiva sepoltura di un rapporto positivo
movimento-sindacato, della funzione in questo rapporto delle strutture più
scoperte verso il movimento (i Cdf), d'ogni linea pansindacale, di ogni
fantasia consigliare che aveva cercato di identificare movimento e sindacato.
Settembre vede esautorato il sindacato da ogni qualsiasi temporaneo ruolo
autonomo, vede un rilancio del compromesso storico non più come proposta
al partito (dibattito interno tra Pci e sinistra), ma come pratica, a cominciare
dalla fabbrica, ribadendo una direzione unitaria del sindacato che da tempo
è il banco di prova e la vera forza immediata del «compromesso». L'accettazione
della cassa-integrazione e dello smantellamento della forza operaia nella
grande e piccola fabbrica, l'accordo sul salario garantito, gli scioperi
della vertenza generale come controllo sul movimento e vigilanza revisionista
sul «compromesso», l'accordo sulle pensioni, l'accordo sulla contingenza,
l'accerchiamento della fabbrica e della forza operaia mentre è permesso
al governo Moro un continuo salasso del salario, la repressione delle lotte
autonome sul territorio, l'uso di piattaforme di lotta (autoriduzione,
cumulo ecc.) per far passare in secondo piano la lotta operaia contro il
centro dell'attacco capitalista - cioè contro la ristrutturazione -
sono, elencate in fretta, le scadenze che il patto sociale, violentemente
repressive verso la classe operaia, attraversa per arrivare ad un obbiettivo
che trova concordi tutti i contraenti sociali e politici dell'accordo-quadro
(Confindustria-sindacati, Pci e area politica del «compromesso»), questo
obbiettivo è la distruzione di «questa classe operaia». Differenti e specifiche
sono le funzioni che spettano a partito e sindacato in questa distruzione,
le vedremo vedendo chi ha di fronte il movimento di lotta. Il movimento
di lotta A chi non tiene conto dei nuovi termini di confronto del movimento
oggi, dello sviluppo politico sopra sintetizzato, questo movimento si presenta
come parziale, disomogeneo per quanto riguarda la tenuta generale e la chiarezza
di prospettiva, disarticolato.
Ma per noi non vi è soluzione di continuità rispetto alle espressioni di
autonomia della classe operaia che sono state l'unica continua e concreta
caratteristica delle lotte di questi anni e che ci fanno definire questa
fase come fase pre-rivoluzionaria.
Né vi è da parte della classe un atteggiamento passivo rispetto al complessivo
progetto autoritario; il movimento di lotta non ha uno sviluppo legato a
situazioni occasionali, ha una continuità politica, è la crescita politica
di una classe sociale nelle situazioni concrete.
La principale situazione concreta è quella che la classe operaia non ha
ancora espresso una direzione rivoluzionaria al suo interno, generale, in
grado di muovere in maniera logica situazioni parziali e generali, tattica
e strategia. La classe operaia affronta questo processo politico da tempo
e oggi gli dà prospettiva in una situazione in cui gli aspetti antagonisti
della lotta di classe sono resi lucidi e chiari dalla crisi economica e
politica e dal suo sviluppo.
Quando noi vediamo esprimersi direzione e organizzazione nelle situazioni
e nelle lotte più significative della classe (lo sciopero lungo alla Fiat)
vediamo la classe operaia affrontare questo problema del partito, in modo
parziale, ma ormai non più «spontaneo»: gli organismi che la classe crea
nella lotta non sono infatti finalizzati a questa o quella lotta, alla sua
durata ed ai suoi obbiettivi, ma tengono al loro interno forti elementi
di continuità e strategici; le lotte stesse saltano le scadenze rituali
e tradizionali.
La caratteristica della crisi capitalistica impone una base materiale e
precisa allo scontro, la dialettica che ne è conseguenza, una base necessaria
alla organizzazione ed allo sviluppo della lotta proletaria.
Questi dati parziali presenti nelle lotte sono la caratteristica di un processo
politico generale di avanzamento dentro al quale noi siamo, con il quale
ci misuriamo e nel quale vogliamo assumere tutte le nostre responsabilità.
Le lotte che noi vediamo contro la ristrutturazione, nella scuola contro
la normalizzazione, nei dipendenti dello Stato contro la divisione dagli
altri proletari, nei quartieri per i prezzi politici e per la casa, nei
livelli a cui si pone l'antifascismo intendendo con questo il movimento
di massa e le sue nuove articolazioni (esercito), il livello militare nuovo
assunto da questa lotta, la coscienza di classe che in questa lotta rispetto
al passato si è radicata ed approfondita spazzando l'interclassismo
revisionista, l'organicità con cui questa lotta viene presentandosi
- contro la gerarchia di fabbrica, contro l'esercito privato e la truppa
privata del capitale, contro le articolazioni stesse dello Stato - sono
i principali segni del procedere ed approfondirsi del cammino dell'autonomia
operaia, sono le principali indicazioni che vengono ai comunisti dalla lotta
di massa.
Vi è una continuità che nessuna divisione tra fabbrica e società può ormai
distruggere, tra la lotta nella fabbrica, nel reparto, contro la ristrutturazione
e la gerarchia e la lotta fuori dalla fabbrica contro lo Stato, contro la
borghesia.
Ed è per questo che abbiamo visto come una naturale estensione del movimento
di lotta di fabbrica l'esplicito schieramento di piazza della classe
operaia milanese venerdì 7 marzo, di fronte ad una tentata provocazione
fascista. Non siamo rimasti sorpresi dalla qualità e dal significato di
quella mobilitazione operaia, né teoricamente né praticamente; ed, appunto,
non la consideriamo un fatto transitorio.
A queste lotte si aggiungono altre lotte: la lotta dei disoccupati nel Sud
retta dalla struttura dei cantieristi, la lotta degli operai degli appalti
Italsider e Sir, le lotte di reparto alla Fiat, le lotte per il salario
ed i passaggi di categoria nelle piccole fabbriche, le lotte preventive
alla cassa-integrazione, il rientro dei sospesi - con il grande respiro
politico che porta al suo interno ed in prospettiva - della Magneti Marelli,
e con più o meno lucidità ed autonomia in altre fabbriche, all'Alemagna,
alla Siemens, alla Carlo Erba ecc., le lotte contro l'ondata repressiva
nella scuola portata dalla divisione del movimento, dai decreti-delegati,
dalla «normalizzazione» sociale (intervento di genitori) e normativa sia
degli studenti sia degli insegnanti, le lotte nei quartieri, l'occupazione
delle case, il carattere meno rivendicativo e più politico di queste stesse
lotte (la classe operaia non solo nominalmente ma direttamente presente,
i livelli di organizzazione estesi alla fabbrica), la determinazione alla
difesa della lotta e della sua organizzazione (dopo San Basilio decine di
episodi di risolutezza proletaria), sono l'immagine viva che quotidianamente
noi vediamo in questa fase del movimento, sono noi stessi, la nostra forza
politica, il segno di un processo politico in atto in cui noi siamo e che
noi stimoliamo.
E, prima di tutto, queste lotte sono la concreta garanzia che la classe
si procura e costruisce per rompere l'equilibrio repressivo che governa
questa fase, che noi abbiamo visto formalizzato in luglio e nella ripresa
autunnale. Ed è questa la base concreta da cui parte la prospettiva di un
movimento anche formalmente generale. Noi definiamo pre-rivoluzionaria questa
fase non sulla base di un'analisi economica a sé stante che operi sul
metro della possibilità espansiva o recessiva del capitale, ma sulla base
dello scontro di classe in atto e delle caratteristiche politiche con cui
il proletariato si presenta a questo scontro e in questo scontro cresce.
Vediamo che il proletariato si presenta allo scontro come classe «per sé».
Scioglie - cioè - sempre di più i rapporti di responsabilità e convivenza
che sono propri ai lavoratori salariati che vedono la propria subordinazione
al capitale come dato immutabile di una situazione immutabile.
Da tempo vediamo nelle lotte un grado elevato di autonomia; da istanza teorica
o ideologica questa autonomia è oggi la condizione pratica e necessaria
in cui la lotta avviene e si sviluppa. La questione del programma II modo
tradizionale con cui è stata posta al movimento la questione del programma
oggi si presenta fallimentare.
Un programma complessivo per un «portaparola» complessivo: così si è inteso
risolvere la questione del programma. Ma quando sono venuti a cadere gli
ipotetici portatori di questo programma (i sindacati, l'evoluzione governativa
del Pci) e quando sono venute a dissolversi le scadenze tradizionali dei
programmi (scadenza contrattuale, aziendale, ed elezioni) si è persa la
dimensione del programma stesso del proletariato. Ma di un programma la
classe ha bisogno, un programma essa esprime. Per recenti lotte di fabbrica
e di scuola abbiamo scritto che «nella scuola come nella fabbrica, le lotte
- nonostante il boicottaggio generale - cominciano a conquistare terreni
concreti di mobilitazione. Il carattere locale di queste lotte non significa
il loro isolamento: ogni lotta porta il programma di tutto il proletariato».
La ripresa della lotta in ogni settore del proletariato è il primo punto
di questo programma. Non è una affermazione ovvia.
Il movimento è di fronte ad un tentativo - oggi già incrinato - di repressione
generale, con le più varie motivazioni, da quella revisionista a quella
che teorizza un «accumulo» di forze e di riorganizzazione del movimento
in attesa della lotta, dunque una sospensione della lotta, a quella che
inventa possibilità di lotta e mobilitazione a determinati livelli (istituzionale,
sociale) mentre bisognerebbe aprire la breccia in fabbrica alla ristrutturazione
e adottare una tattica elusiva rispetto all'attacco dello Stato ed alla
provocazione delle bande fasciste, a quella, con motivazioni teoriche apparentemente
più fondate, che rinvierebbe - su un nuovo assetto del capitale e della
organizzazione produttiva - un nuovo ciclo di lotte. È proprio tutto questo
cumulo di alibi e di predisposta repressione che il movimento si trova a
battere al suo interno, e il primo punto del programma è una battaglia politica
fondata sulla lotta, sulla concretezza della lotta, per spazzare questa
pratica e questo dibattito dal movimento. La continuità della lotta e l'autonomia
dei contenuti della lotta dalle motivazioni padronali che articolano la
crisi capitalista è il primo contenuto del programma proletario. Rottura
dell'equilibrio repressivo Confindustria-sindacati, prospettiva di superamento
dell'unica ipotesi politica che il movimento si trova di fronte, il
«compromesso storico», che oggi la classe misura e comincia a misurare nella
sua pratica realtà.
Il rifiuto della ristrutturazione è la prima indicazione concreta che questo
movimento si dà.
Esso avviene nei vari modi che abbiamo prima elencato.
Non vi è possibilità che su questo punto le proposte di lotta siano rivolte
principalmente alla produzione, vi è un necessario svincolo dalla produzione
e dalla oggettività produttiva su larga parte di questa lotta. La crisi
e il capitale sottraggono al movimento lo strumento della lotta alla produzione
e il movimento anche per questo fa un salto di qualità.
Lo sciopero preventivo alle richieste di cassa-integrazione lo abbiamo visto
praticato alla Magneti Marelli come risposta politica a quell'attacco
politico che è la ristrutturazione. Anche lo sciopero nei reparti che tirano
supera la specificità di reparto - anche se parte da tempi, ritmi, organico
- e si unisce come articolazione alla lotta generale che la classe operaia
di quella fabbrica conduce contro l'attacco mortale della ristrutturazione.
Sia nel dato della crisi capitalistica, ma prima di tutto in come si conforma
la lotta, vi è lo svincolo dalle scadenze aziendali, dall'azienda stessa,
dalle scadenze contrattuali.
La lotta non è lotta del proletariato in fabbrica, nella scuola, in quartiere;
ma di fabbrica, di scuola, di quartiere, come strumentali specificità che
assieme alle nuove lotte dei disoccupati, dei cantieristi, non isolano il
proletariato e lo chiudono in settori diversi, non lo pongono in attesa
di scadenze mitiche e tradizionali assieme (vertenza, contratto, categoria),
ma ne articolano il carattere autonomo generale. Perché il quadro è quello
di quanto il proletariato produce in termini di disgregazione diretta e
di intervento diretto nell'esercito - movimento dei soldati - nella
polizia stessa, nel movimento di piazza, nella lotta antifascista, nelle
sue uscite insurrezionali come quella del movimento del 7 marzo. Questo
è il terreno concreto della lotta oggi, la lotta del proletariato per la
sua conquista è continua. Su questo terreno il proletariato può realizzare
unità, può realizzare organizzazione conseguenti alla prospettiva politica.
Il carattere generale del programma di lotta nella fase presente, non sta
nella sua generalizzazione effettiva, in termini di movimento simultaneamente
mobilitato sul territorio nazionale sugli stessi punti, ma nella qualità
politica e nella responsabilità generale che in ogni lotta è presente, nella
omogeneità politica delle lotte. Ogni aspetto corporativo è assente da queste
lotte, la forza unitaria è dentro alle particolari vicende e particolari
piattaforme, nonché alle particolari forme organizzative di lotta che il
movimento si dà. L'unica forza corporativa è la socialdemocrazia e il
suo programma politico e sindacale.
La divisione, la contrapposizione tra settori del proletariato - con la
principale operazione tra occupati e disoccupati, tra operai e forza lavoro
intellettuale, tra dipendenti dell'industria e dipendenti dello Stato,
tra fabbrica, scuola e quartiere - è l'anima del programma corporativo
sindacale, oggi. Nel movimento sono invece politicamente chiare, materialmente
fondate, le spinte unitarie, il programma di tutti. Le parole d'ordine,
le indicazioni che il movimento si dà, sono legate alla sua effettiva capacità
di esercitarle in prima persona, senza possibilità di delega. Non vi è organizzazione
generale quale si voglia che oggi sia in grado di portare il programma che
è dentro a questo movimento di lotta. La fabbrica, il territorio sono le
prime istanze di dimensione e potere territoriale, le prime competenze politiche,
su cui il movimento di lotta esercita in termini concreti - dunque arricchisce
- il suo programma.
Ma questa non è che una tattica che il movimento adotta nella situazione,
in una fase in cui tende ad arrivare ad una dimensione di lotta simultanea,
la quale dimensione simultanea sappia durare nel tempo. A Milano, il 7 marzo,
tutti hanno capito cosa significhi questa dimensione generale che noi vediamo
nelle lotte parziali e locali, il problema che si è posto - subito - è stato
quello della tenuta di questo movimento a quella dimensione. Ecco perché
nel programma del movimento di lotta, contenuti della lotta, organizzazione
della lotta e forme di lotta si legano di continuo sul filo della possibilità
di delega. Come il programma si lega, nei suoi contenuti, alla forza che
il movimento riesce ad esprimere come movimento autonomo su quei contenuti,
così l'organizzazione si presenta come del tutto autonoma dalle organizzazioni
tradizionali. Prima di tutto dalla organizzazione rivendicativa tradizionale
della classe, il sindacato, poi dalle dimensioni politiche generali che
la classe si è data fino ad oggi: il partito revisionista e per certi versi
i gruppi istituzionalizzati. Ma più diffusamente di questo parleremo nei
nostri compiti. Il quadro politico dentro cui si trova a lottare il movimento
Dunque la distruzione di questa classe operaia è l'obiettivo che il
padronato si propone. Un obiettivo interno, un obiettivo internazionale.
Ciò che noi vediamo in questo paese, avviene in Germania con una accentuazione
simultanea dell'apparato repressivo dello Stato, della funzione repressiva
dei sindacati, della accentuazione delle divisioni materiali e nazionali
della classe operaia. Avviene in Svizzera, dove alla classe operaia si è
imposta anche una formale retrocessione di salario, con divisioni, licenziamenti,
peggioramento. Ed avviene nei paesi che più devono portare i compagni all'attenzione
critica dei processi in atto: prima di tutto il Portogallo.
C'è un impegno specifico della nostra organizzazione su come vanno chiariti,
introdotti nella lotta di classe italiana i tempi di propaganda, i tempi
di rivalutazione critica, il rilancio della prospettiva della presa del
potere da parte del proletariato, legando il nostro dibattito e intervento,
nonché la nostra conoscenza e legami diretti, alla lotta di classe e al
processo rivoluzionario in atto in quel paese. Nulla di specifico come anomalo
e diverso è avvenuto e avviene in Portogallo rispetto alla esperienza rivoluzionaria
della classe operaia e al processo di emancipazione del proletariato. Senza
voler schematizzare, possiamo dire che la spaccatura nell'esercito,
la dissoluzione lenta ma precisa sino ad oggi dell'esercito come corpo
separato e l'integrazione del dibattito e della organizzazione dell'esercito
con il dibattito proletario, sono processi già in passato, e anche nella
lotta di classe contemporanea, presenti. Il logoramento e la crisi dell'esercito
nelle guerre coloniali portate dalla borghesia portoghese, il riferimento
proletario delle rivolte dei militari, gli ulteriori ed ultimi scontri di
classe di cui le fila dell'esercito sono state - apparentemente - le
principali e quasi uniche protagoniste, non fanno di questa esperienza che
un dato quasi canonico dei processi rivoluzionari, quanto mai - se si vuole
- leninista. Il problema - come sempre - delle specificità sta invece nella
chiarezza politica delle organizzazioni della sinistra portoghese a partire
dal Pcp, nella chiarezza, nella teoria e nella prassi, con cui il movimento
dalle fabbriche alle campagne procede nel processo rivoluzionario, di espropriazione
e di armamento della classe (dall'operaio di fabbrica, all'operaio
e contadino di leva nell'Mfa), nei livelli di organizzazione comunista
e proletaria che esercito, operai e braccianti si stanno dando, della prospettiva
internazionale in cui questo scontro si pone, per l'immediata ripresa
e per la nuova qualità del movimento rivoluzionario in Spagna e in Italia
stessa. Solo il livido sciovinismo dei socialdemocratici nostrani, solo
l'asino socialdemocratico impaurito da un reale processo rivoluzionario
che sconvolge Stato, struttura di comando, poteri ed economia capitalista,
può oggi ragliare sul «pluralismo», mettendo in cattedra come professore
di democrazia borghese il segretario del Pci al 14° Congresso. Il contributo
che noi intendiamo dare alla lotta di classe in Portogallo è dunque urgente,
ricco, pieno di contraddizioni immediate, privo di qualsiasi accademismo.
Stati Uniti, borghesie europee con alla testa la Repubblica Federale Tedesca,
i partiti delle borghesie con alla testa la Democrazia cristiana italiana,
pongono al centro della questione europea il Portogallo.
In realtà lo scontro di classe in quel paese, come è stato prodotto dal
ciclo di lotte che ha aperto la crisi dell'assetto capitalistico oggi
- dall'Europa ai paesi dell'Africa, dal proletariato di fabbrica
europeo ai movimenti di liberazione - così è un altro punto, e centrale,
della generale normalizzazione che la borghesia ha come obbiettivo, dell'attacco
mortale che la borghesia sta sferrando alla classe operaia. Portogallo come
Cile, questo è l'obbiettivo dei padroni.
Tutta la lotta di classe internazionale del proletariato, a partire da quello
italiano, è impegnata nel suo complessivo programma a lottare a fianco del
proletariato portoghese. Una vittoria della borghesia qui, sarebbe un'altra
violenta e grave sconfitta per tutti i proletari, immediatamente visibile
e riscontrabile anche nei dettagli della lotta di classe interna, anche
più - almeno per il proletariato italiano - di quanto sia stato il Cile
stesso, cui pure tutto il mondo proletario aveva a lungo guardato. L'altro
paese europeo che noi riteniamo dover essere al centro dell'attenzione
critica dei compagni è l'Inghilterra.
Le lotte che la classe operaia di quel paese ha portato avanti in questi
anni, presentano alcune caratteristiche che vediamo ripetute nell'area
europea: la mancanza di prospettiva politica, il limite rivendicativo della
lotta, la mimetizzazione nei sindacati e nelle strutture rivendicative di
base degli elementi iniziali di forza politica organizzata che quella classe
operaia ha prodotto. Di fronte a queste lotte, la capacità di articolazione
della borghesia e di solidarietà internazionale della borghesia ha fatto
un salto di qualità.
È in questo paese che noi vediamo la maggior articolazione e la maggiore
capacità di equilibrio della borghesia quando di fronte a sé questa classe
abbia un proletariato che si esprime in termini violenti, continui, ma primitivi,
che manchi di prospettiva interna e internazionale. Il ruolo del sindacato
in quel paese, nella sua funzione mediatrice e repressiva verso la classe,
il limite rivendicativo dell'autonomia, la capacità di resistenza della
borghesia anche se l'involuzione repressiva sembra ad ogni passo più
chiara, questi sono i termini dei dibattiti, le esigenze di scontro e riorganizzazione
anche internazionale che immediatamente la situazione inglese pone ai militanti.
Come avvenga e quale sia la dinamica materiale e politica dell'attacco
che la borghesia sta sferrando al proletariato italiano è ormai sotto gli
occhi e nella esperienza di tutti i compagni.
Come sempre, sino ad oggi, abbiamo visto venire avanti prima l'attacco
alla base materiale del proletariato, quindi l'attacco politico e -
sempre più esplicito - l'attacco dello Stato e delle truppe private
della borghesia. Un piano lineare - secondo i padroni - per distruggere
questa classe operaia. Mentre nella fabbrica va avanti il tentativo e, insieme,
il consenso generale delle forze istituzionali a questo tentativo di distruggere
la base materiale della forza politica della classe operaia, della sua autonomia,
e dei suoi livelli di organizzazione (fabbrica, reparto, compattezza e omogeneità),
si costruisce l'accerchiamento della grande fabbrica, come istanza politica
privilegiata della autonomia, rimescolando e distruggendo il tessuto operaio
delle piccole fabbriche del territorio, si dissangua il proletariato con
nuove tasse dirette e indirette (prima del voto ai diciottenni, le tasse
ai diciottenni!), con un metodo antisalariale selvaggio che preoccupa la
stessa borghesia.
Le casse dello Stato potranno allora rimettere in atto un meccanismo di
divisione della classe operaia attraverso il «salario di Stato», rimandando
nello stesso tempo lo scontro frontale nei punti tradizionalmente più deboli
del capitale. Con queste garanzie, con questo vuoto nelle grandi fabbriche,
si pratica ogni giorno di più il totale annientamento di intere zone operaie
(dalla Valtellina alle zone neoindustrializzate del Veneto alla Bassa padana,
alle isole operaie del Sud), la loro disgregazione e distruzione, la chiusura
di piccole fabbriche, lo straordinario, il licenziamento politico esplicito,
la divisione tra proletariato di fabbrica e lavoratori della scuola (sia
insegnanti, sia studenti), cercando qui - per la prima volta nella storia
del movimento operaio - (questa volta sì in modo «originale» rispetto alla
tradizione della lotta di classe), di normalizzare e reprimere con una pressione
sociale inedita, e con norme esplicite di legge, con la pratica e gli interventi
repressivi dei quadri socialdemocratici della classe operaia, con una funzione
del sindacato dove anche la parola «tradimento» non ha più senso e che si
presenta solo come controparte e logica repressiva e di delazione, con la
teoria e la pratica degli organismi collegiali di gestione, di una fetta
intera del movimento. Sempre più esplicitamente, su questa realtà, crescerà
la repressione aperta dello Stato. Già si moltiplicano gli attacchi repressivi
anche alle lotte operaie, come decine e decine sono i licenziamenti motivati
politicamente, gli arresti ai militanti, la caccia su tutto il territorio
ai rivoluzionari; clima e realtà d'ordine sono introdotti con la galera,
l'arresto e l'isolamento, con il consenso di fatto dell'intera
area costituzionale. Solo l'accozzaglia idealista e di formazione piccolo-borghese
che benevolmente si definisce nei «gruppi della sinistra rivoluzionaria»
ha potuto pensare - salvo più repentini ripensamenti - a un tracollo automatico
dello Stato, a una disfatta delle compagini politiche della borghesia, ad
una spaccatura e un crollo verticale della Democrazia cristiana come caratteristica
di questa fase.
Il pessimismo è il rovescio della medaglia di questo ottimismo sfrenato,
l'assenza dallo scontro politico reale è caratteristica dell'uno
e dell'altro modo di evadere insieme realtà dello scontro e propri compiti.
Dobbiamo qui ripetere quanto noi pensiamo, abbiamo prima scritto e prima
ancora di scrivere abbiamo praticato nella realtà dello scontro, per ribadire
che queste considerazioni, questa analisi della realtà e dell'attacco
padronale non è per noi origine di pessimismo? È la incontrovertibile tendenza
del movimento a darsi una prospettiva e un assetto conseguente, a non subire
passivamente l'attacco, a prospettare la sua risposta al di là della
fase, che noi riteniamo la caratteristica della fase.
È il permanere e il qualificarsi delle ragioni autonome che la classe operaia
ha messo al centro delle sue lotte, è la svolta che l'autonomia oggi
può, deve, sta prendendo che riteniamo la nuova qualità della situazione
e contro la quale il progetto reazionario e autoritario, l'obbiettivo
di fondo dell'attacco capitalista che è la distruzione stessa di questa
qualità, non vince. Ma solo le caratteristiche dello scontro fanno sì che
le nostre non siano, come non sono, affermazioni di principio, che la nostra
linea politica non sia di pura resistenza, che vi sia una tattica che vi
sia un programma, che se ne indichino tempi e modi di attuazione. Il «compromesso
storico» È in questo quadro che una parte della classe operaia esprime un
progetto politico, di cui oggi si può cogliere soltanto la sostanza autoritaria
per la classe operaia stessa, e lo mette al centro del rapporto borghesia-proletariato.
Le formule teoriche e le analisi che accompagnano la pratica del «compromesso
storico» sono una coerente derivazione della tradizione revisionista e socialdemocratica
nel dibattito del movimento operaio. In una fase in cui noi vediamo acutizzarsi
lo scontro internazionale e prima di tutto la «multipolarità» dello scontro,
in cui noi vediamo soprattutto l'Europa al centro dell'antagonismo
tra le borghesie, come effetto del più generale scontro di classe tra borghesia
e proletariato, viene dai revisionisti affermato e ipotizzato: «[...] si
può pensare che lo sviluppo della coesistenza pacifica e di un sistema di
cooperazione e integrazione così vasto da superare progressivamente la logica
dell'imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più vari aspetti
dello sviluppo economico e civile della intera umanità, potrebbe anche rendere
realistica l'ipotesi di un "governo mondiale" che sia espressione
del consenso e del libero concorso di tutti i paesi [...]». Kautsky e il
socialismo italiano non avevano detto meglio alla vigilia delle guerre mondiali.
In una fase in cui noi vediamo come obbiettivo fondamentale dell'attacco
capitalista la distruzione politica dei livelli di coscienza e organizzazione
raggiunti dalla classe operaia, in cui la classe operaia non vede fine alla
crisi, alla recessione ed al proprio squilibrio, alla propria esistenza
e sussistenza stessa nel sistema, il Pci come motivo immediato di fondo
del «compromesso», con quanta più chiarezza non si potrebbe, propone di:
«riconoscere i dati oggettivi e la gravità della crisi (e afferma apertamente)
di fronte alla classe operaia, ai lavoratori, ai giovani, la necessità di
uno sforzo eccezionale e unitario di tutto il popolo per garantire la ripresa...
». Tuttavia, meglio di qualsiasi singolo capitalista, il Pci sa parlare
alla classe operaia il migliore e più seducente linguaggio del padrone.
Sacrifici oggi per una partecipazione diretta al comando domani, di cui
già da adesso potete avere una serie di saggi.
Partecipazione all'Ente locale, nella scuola, nei quartieri e nell'assegnazione-case,
partecipazione nella fabbrica per la categoria, il posto di lavoro e la
collocazione nell'organizzazione produttiva, definizioni di parzialità,
potere di trattativa, prospettiva di comando. È politica, non è la politica
della classe operaia, ma, ad un proletariato italiano che nel suo generale
non ha una prospettiva alternativa egemone, è una immagine di realtà, di
realismo.
Ogni radicalismo piccolo-borghese che aveva investito e cercato di dare
organicità in fabbrica al discorso sindacale (i monsieurs proudhon degli
anni '70 appena cominciati) del «nuovo modo di fare l'automobile»
e che pure cercava di migliorarsi con la terrificante realtà dell'organizzazione
capitalista della produzione nei suoi centri più scoperti, viene abbandonato.
C'è l'emergenza nazionale e c'è poco spazio per ogni dilazione:
è necessario produrre di più (la quantità è al centro delle «conferenze
di produzione» milanesi), è necessario accettare la ristrutturazione e la
disoccupazione, e il blocco dei salari, la fame, la fine della lotta, però
si uscirà dalla crisi - ed è già questo un fatto preciso - con il premio
del comando, con la parte di comando che il «compromesso» prospetta. Quando
tutto ciò nasce da una partecipazione reale al potere nel paese del Pci,
al discorso viene più forza: potere in fabbrica, carattere neocorporativo
ma che assicura una fascia di classe operaia col «salario di Stato», potere
decentrato ecc. Quanto tutto ciò sia lontano dagli interessi strategici
e immediati della classe e dagli stessi interessi degli operai che votano
e credono nella socialdemocrazia è altrettanto palmare, quanto lento a diventare
esperienza per la classe stessa, per lo stesso proletariato socialdemocratico.
Tutta l'articolazione possibile è dispiegata dai revisionisti per controllare
il movimento e la lotta, l'uso stesso della lotta, almeno in certe regioni
e situazioni.
Ma di questo converrà parlare meglio quando affronteremo i particolari della
nostra tattica. Vale qui anticipare il particolare peso che il Pci esercita
nella situazione attraverso la sua grande elasticità e mobilità. Se confrontiamo
l'immobilità revisionista di fronte al movimento esploso nel '68
alla sua odierna capacità di articolazione, possiamo averne subito la misura.
Dalla scuola, al quartiere, meno agevolmente in fabbrica, all'uso del
sindacato si passa al superamento del sindacato nostrano stesso come i deboli
interventi sia di adesione servile (Lama), sia di presa di distanza preoccupata
(Trentin) al 14° Congresso. Nonostante la capacità iniziale di respiro politico
che ha avuto la proposta del «compromesso», e che ancora tiene, crediamo
che parallelamente questa proposta alle masse sia andata logorandosi.
Il Pci non si oppone alla sostanza autoritaria del progetto capitalista,
ed a essa aderisce e l'arricchisce nei confronti della autonomia, del
movimento e delle prospettive rivoluzionarie che l'autonomia esprime.
Ma tanto più la prospettiva rivoluzionaria diventa necessaria e realistica,
tanto più una degenerazione di base e di vertice colpisce l'apparato
e la capacità di egemonia del revisionismo.
Lo misuriamo sul singolo operaio espulso dal processo di ristrutturazione,
sul giovane operaio, insegnante, tecnico, inchiodato all'estraneità
della produzione capitalista e alla miseria del salario, lo misuriamo quando
il proletariato internazionale viene scosso da fasi antagoniste e da processi
espliciti di emancipazione come è stato in Cile, come è in Portogallo.
In ogni atto e fase con cui l'autonomia oggi si propone, con cui la
lotta tende a porsi in questa fase, noi vediamo la socialdemocrazia scossa
da contraddizioni, far crescere - formalmente unita - la sintesi autoritaria
del suo discorso politico, ma uscire sempre più indebolita nella prospettiva
di egemonia e controllo dello scontro di classe. Il Pci, dunque, che sinceramente
si impone all'uso dell'autoritarismo in difesa della rendita e in
difesa dei vecchi equilibri e clientele, che si oppone cioè alla reazione,
di fronte alla lotta operaia così come essa oggi si determina deve invece
essere irrimediabilmente autoritario. Solo una eccezionale ripresa del movimento
può sollevare in termini utili quelle contraddizioni che ci sono, agiscono
e sono presenti nel Pci. Nel nostro dibattito siamo portati sempre di più
a ipotizzare una degenerazione del potere revisionista, una graduale ma
costante contraddizione con le masse, piuttosto che una compatta ascesa
al potere (al governo, intendiamo) del Pci. È chiaro che su questa prospettiva
noi stiamo ancora approfondendo il dibattito. Però possiamo affermare subito
che lo schema elementare che vede il futuro della lotta di classe dominato
dalla prospettiva del potere del Pci, e dallo scontro tra borghesia e proletariato
su questa prospettiva, ci trova estranei. Vediamo una degenerazione crescente
della situazione, una crescita della lotta e dell'autonomia e nello
stesso tempo una crescita della coscienza e organizzazione rivoluzionarie
che non lascerà questo ulteriore spazio ad uno sviluppo programmato della
situazione. Prima che si realizzi l'obbiettivo del compromesso due realtà
cresceranno: da una parte la contraddizione e l'atteggiamento autonomo
della classe operaia rispetto alla crisi e agli squilibri crescenti economici
e politici prodotti dalla crisi, dall'altra le contraddizioni dell'area
socialdemocratica e interne del Pci. Se il «compromesso» è l'unica proposta
politica che il proletariato oggi trova organicamente sulla piazza, è il
suo carattere illusorio che gli impedisce una prospettiva organica.
Il Pci è espressione storica di una illusione sulla possibilità di programmazione
del capitale, di uno sviluppo equilibrato dello stesso, di una funzione
della classe operaia di stimolo e normalizzazione della crisi capitalistica,
con il proprio ulteriore sacrificio, con la propria ulteriore divisione,
con l'aumento del proprio sfruttamento. Mentre si divarica l'interesse
del salario dal capitale, il Pci cerca di riproporre un equilibrio tra le
parti, mentre lo Stato borghese si manifesta sempre di più nel suo antagonismo
verso le lotte operaie e del proletariato, il Pci si fa garante dell'efficienza
dello Stato. Governo ombra quello Confindustria-sindacati, governo formale
quello di Moro, a quest'ultimo spetta il compito, oggi, di mediare e
tradurre a livello di leggi e competenze statuali e di equilibri transitori
l'attacco materiale e politico che è la sostanza degli accordi sindacati-Confindustria.
Così è stata la riforma tributaria prima, il decretone Moro, i nuovi ed
ultimi aumenti, la riforma dell'esercito e della polizia (repressione
del sindacato di polizia), le accentuazioni di corpo separato della stessa
nel suo ribadito aspetto mercenario (aumenti), nella «nuova professionalità»
ed efficienza. In modo ancora più esplicito ha parlato la cosiddetta «legge
sulle armi», le leggi e leggine sull'«ordine pubblico». Dalla produttività
al «nuovo modello» di sviluppo, per tornare alla produttività, dall'ordine
alla morale ipocrita piccolo-borghese sulla criminalità per aderire ai dati
di fatto repressivi verso il movimento di lotta proletario, così come il
Pci fronteggia la classe operaia di questo paese, così si trova ancor più
a fronteggiare e a reprimere i moti operai e i processi di emancipazione
che la classe operaia mette in atto e affronta in altri paesi. Garante della
ripresa capitalista all'interno è assieme garante dell'aggressività
imperialista del capitale italiano e della efficienza dell'apparato
nazionale nello scontro internazionale.
Per oggi si tratta di uno scontro di mercato e di area economica, per oggi
si tratta di uno scontro nazionale e locale tra borghesia e proletariato.
Ciò che turba il Pci è l'autonomia antiatlantica del programma del Pcp
e del Mfa portoghese, così come lotte, sindacati e partiti comunisti nel
Medio Oriente sono del tutto scomparsi dalla stampa revisionista, turbative
del rilancio del capitale italiano verso le borghesie e le aristocrazie
di quei paesi.
Socialdemocrazia e sciovinismo vanno di pari passo, angustia nazionale e
locale diventano oppressione reale per le stesse lotte proletarie italiane,
tra quanto afferma Amendola e quanto affermava Bissolati non vi è differenza
alcuna neppure formale, chi dovrebbe pagare per entrambi è sempre il proletariato
italiano e internazionale. Ma anche quest'ultima e nuova proposta alla
classe operaia italiana, futura aristocrazia operaia rispetto all'assetto
internazionale e ai paesi del cosiddetto terzo mondo, si presenta tanto
più impotente, quanto più pesante per la classe operaia di questo paese.
In realtà, in cambio della sicurezza di una generalizzazione dell'intervento
imperialista, e cioè della crisi in ogni situazione internazionale, si propone
«un eccezionale sforzo unitario di tutte le forze del nostro popolo».
Di tutto il radicalismo piccolo-borghese lasciato cadere dal revisionismo
si sono impadroniti i «gruppi».
La perdita del terreno materiale di scontro, del rapporto anche qui tra
struttura e sovrastruttura, delle analisi concrete, hanno accompagnato l'atteggiamento
di questa area rispetto alla fase attuale. Il salto politico della situazione,
il precedere della crisi, la messa al primo posto della questione del radicamento,
della forza, della reale egemonia su settori consistenti di classe operaia,
della prospettiva e della capacità di direzione, sia pure parziale, su un
movimento di lotta che ha caratteristiche attuali, hanno messo in crisi
la presenza dei gruppi nella fabbrica, nella scuola, nel quartiere. In queste
condizioni non è rimasto che truccare le carte, chiudere gli occhi, ipotizzare
scadenze per evadere dai compiti presenti, fino magari a prestarsi a fare
il braccio repressivo delle lotte autonome. Raccolta di firme per l'Msi
fuorilegge nel tentativo di travolgere di contraddizioni l'area socialdemocratica
e di esorcizzare i duri e nuovi compiti che l'antifascismo militante
e l'attenzione delle truppe del capitale in questa fase, pongono a tutti
i militanti. L'aborto come battaglia anche con fondamenti materiali,
ma limitata ai suoi aspetti interclassisti o semplicemente anticonformisti.
Una attesa e preparazione dei «contratti», ora apocalittica, ora di tatticismo
sindacale, che è servita a interpretare come temporanea e ciclica la ristrutturazione
capitalista. Le battaglie elettorali, in termini distaccati dallo scontro
di classe nel tempo e nei modi, come espressione di voti, candidati, consolando
i propri adepti con la profezia di un crollo verticale della Democrazia
cristiana. Più nobili e articolate le teorie dell'«accumulo» di energia
e di volontà di lotta da parte della classe operaia che - distrutta dalla
ristrutturazione - risorgerebbe in autunno, o più in là ancora, nel nuovo
assetto capitalistico a crisi conclusa. L'irresponsabilità delle varie
proposte, il consenso di fondo, salvo varianti secondarie, alla politica
sindacale, non possono essere prese come il segno di linee politiche sbagliate,
quanto di una vera e propria assenza dal movimento e dal suo dibattito.
Come non capire ciò che anche gli asini socialdemocratici ben capiscono
e perseguono, e cioè che ciò che viene oggi distrutto, viene distrutto in
termini politici e pregiudica i termini politici dello scontro immediato
e di prospettiva, nonché stravolge le stesse scadenze rituali (contratti)?
Ciò che la classe operaia esprimerà domani dipende dalla sua capacità di
essere, esistere, lottare politicamente in questa fase. I nostri compiti
Il movimento di lotta frammentato ma omogeneo in prospettiva, la mancanza
nel breve periodo di una alternativa che sia di programma e forza concreta
adeguata, il processo di degenerazione e di stimolo rappresentato dalla
socialdemocrazia, il progetto autoritario e reazionario della borghesia:
queste sono le realtà su cui misurare i nostri compiti. Alla base del nostro
sforzo politico e organizzativo c'è più che mai la volontà di non presentare
un intervento settoriale o limitato, di combattere settorialismo, localismo.
Una serie di situazioni autonome e concrete oggi sentono la pesantezza organizzativa
dell'isolamento e ancor più sentono un pesante isolamento politico proprio
perché non vi è una generalizzazione esplicita della autonomia. È prima
di tutto con questi compagni che hanno lavorato per anni seriamente e rigorosamente
in una serie di condizioni concrete costruendo nell'autonomia livelli
di organizzazione, programmi e lotte, che noi cogliamo un confronto e vogliamo
avviare un processo - nella lotta - di simultaneità di programma, di iniziativa,
di organizzazione. Il centro della nostra iniziativa è la fabbrica. In essa
va costruita e organizzata la nuova qualità politica della lotta operaia.
La fabbrica non è un dato produttivo, non si tratta di valutare le lotte
su questa base, è un dato reale, un dato storico, un dato politico. Il recupero
alle masse ed all'iniziativa rivoluzionaria dei terreni concreti è già
nei programmi dell'autonomia ed è il primo dei nostri compiti: la fabbrica
terreno concreto di scontro e di crescita politica che revisionismo ed opportunismo
- nella fase antagonista - tendono ad accantonare. Il reparto, la fabbrica,
la grande fabbrica, il coordinamento delle piccole fabbriche, sono le situazioni
politiche in cui si alimenta, parte, si organizza la nostra iniziativa.
In fabbrica, con quali compiti? Creare il potere operaio in fabbrica, estendere
il potere operaio dalla fabbrica al territorio. Il programma guarda al potere
politico reale, pone la questione «quale forza per il programma?», quale
potere operaio? E su questo non si può più illudere il proletariato: gli
operai devono rompere la delega al sindacato ed alla sociademocrazia, farsi
portatori del programma.
Il rifiuto della ristrutturazione capitalista è al centro del programma
operaio.
Lo sciopero autonomo e preventivo è il centro delle forme di lotta.
Colpire la gerarchia, conquistare tutta l'agibilità politica nella fabbrica
e fuori, costruire un rapporto nell'organizzazione che porti il segno
della democrazia operaia, del suo livello di immediatezza e utilità, della
sua funzionalità all'organizzazione operaia di fatto e all'organizzazione
politica rivoluzionaria di prospettiva: sono obbiettivi paralleli. Indichiamo
come forma organizzativa: il comitato operaio di reparto, con i suoi livelli
di autonomia, i suoi compiti politici complessivi, il comitato comunista
di fabbrica come struttura della organizzazione rivoluzionaria. Essi sono
espressione di forti mediazioni con le masse e il movimento da una parte
e di una necessità di separazione dall'altra con una continua verifica,
ai due livelli, del programma. La funzione delle sezioni fasciste e golpiste
della borghesia pone al centro l'antifascismo militante, la costruzione
degli strumenti per la battaglia diretta per l'emancipazione, programma
e livelli adeguati di lotta alla repressione di fabbrica e di Stato.
Ciò va perseguito nel rifiuto delle mediazioni parlamentari e dell'area
costituzionale, portando invece una determinazione rivoluzionaria e autonoma
su entrambi i terreni di scontro. Nessuno può pensare di risolvere questi
punti con l'efficacia della propria organizzazione, è necessario dunque
fare vivere alle masse quanto più possibile la qualità dello scontro in
atto, sia a livello della mobilitazione antifascista, sia a livello dello
scontro con lo Stato. L'ambito in cui le masse, oggi, in una situazione
in cui noi non ipotizziamo una mobilitazione generale, un movimento con
una iniziativa simultanea, devono articolare lotta, programma, organizzazione,
e subito dopo la fabbrica e l'unità di piccole fabbriche, il territorio.
I principi e la pratica del potere operaio sul territorio vanno del tutto
ampliati rispetto alle iniziative praticate dell'autunno (straordinario,
fabbriche chiuse e occupate, dilatazione esterna della lotta alla ristrutturazione)
e già viste in quel nuovo straordinario strumento di massa e di avanguardia
che è stata la ronda operaia.
Vanno riprese e riorganizzate ronde e squadre territoriali, cortei esterni,
picchetti di massa, ma il territorio va fatto terreno di nuove esperienze
di lotta e di nuovi livelli di organizzazione politica.
Militanza antifascista e prevenzione dell'attacco statale, attacco alle
centrali di provocazione, riunificazione dei settori deboli sotto l'egemonia
politica della classe, nuovi obbiettivi come i prezzi politici, nuove urgenze
come quelle poste dalla scuola e dalla lotta di quartiere. Piattaforma di
fabbrica, piattaforma di reparto, piattaforma territoriale. In questi tre
programmi si intersecano e vivono uno stesso livello di prospettiva, obbiettivi
tradizionalmente considerati «rivendicativi» e altri considerati «politici».
Quando noi affermiamo che la legge sulle «armi» non deve passare nella pratica
militante, quando noi chiamiamo alla mobilitazione contro lo Stato, i fascisti,
le leggi sull'«ordine» o alla mobilitazione internazionalista, non facciamo
un altro programma rispetto all'obbiettivo del salario, delle categorie,
dell'orario, della lotta alla ristrutturazione, del suo rifiuto, del
ritiro di tutte le sospensioni. L'attivo operaio territoriale è il modello
politico-organizzativo che noi proponiamo alle avanguardie del territorio,
che noi intendiamo far praticare al movimento come istanza politica unitaria,
come sede di dibattito e di iniziativa. Non di attivi in senso proprio si
tratta, ma di sezioni del movimento così come è per il coordinamento di
lotta delle piccole fabbriche, per il comitato operaio di reparto, ed anche
in parte per il comitato comunista di fabbrica. Il programma degli attivi
operai è sintetizzato nella capacità della classe operaia di sganciarsi
dall'azienda come sganciamento dalla lotta semplice contro la produzione
(che va comunque condotta a fondo), per produrre un programma immediato
e di tendenza ben più vasto che tiene conto della impotenza e della potenzialità
repressiva del revisionismo da una parte, della sua disgregazione in prospettiva,
del carattere mistificante e inutile della mobilitazione e del programma
sindacale, dell'esplicitarsi di misure repressive complessivamente antioperaie
con carattere né limitato, né temporaneo da parte della borghesia. È oggi
necessario che la forza specifica della fabbrica, della scuola, del quartiere
come forza specifica di gruppi autonomi si ponga il problema dei livelli
di crescita dell'organizzazione rivoluzionaria complessiva e della sua
pratica sul territorio. In ciò non vi è niente di strano: è il programma,
la teoria e pratica complessiva, la linea politica che muovono le condizioni
di massa al di là del settorialismo.
Ma anche l'organizzazione e i livelli di organizzazione si muovono con
una loro pratica misurandosi sulle questioni della forza. Sarebbe aberrante
partire dal localismo per rimanervi.
Noi partiamo da lì perché la verifica della prassi rivoluzionaria è oggi
tanto decisiva quanto l'accordo sull'analisi della fase, sui principi
rivoluzionari. Ciò vuol dire, nello stesso tempo, che noi non riconosciamo
alcun polo di riferimento privilegiato nella situazione attuale, che vediamo
nella teoria e nella prassi della sinistra rivoluzionaria un processo necessario
affrontato dal movimento, ma un dato - perciò - oggettivo, rispetto al quale
partire per rifondare. La nostra volontà di estendere forza, organizzazione,
è grande tanto quanto sentiamo necessario il confronto e lo scontro politico
sui temi di analisi principali qui enunciati, sui temi principali di iniziativa
e programma qui esposti, sulla pratica di lotta che abbiamo portato e portiamo
avanti. Le grandi fabbriche, la Fiat, l'Alfa, le città operaie come
Napoli, i poli politici della Lombardia dove noi operiamo, l'unità di
dibattito, la lotta e l'organizzazione con le situazioni rivoluzionarie
del Sud e della campagna, la scuola, i quartieri pongono delle necessità
che vediamo andare ben al di là della semplice estensione di noi stessi
ma che sono - nello stesso tempo - temi di unità dei rivoluzionari sul programma
e sulla prospettiva.
Su questo, sulla situazione nazionale ed internazionale, sul processo concreto
di formazione del partito, vogliamo aprire il dibattito con ogni compagno,
con le situazioni autonome e con quei poli politici organizzati ai quali
è implicito il riferimento nel dibattito della nostra forza che qui abbiamo
espresso.
Comitati Comunisti: Carlo Erba - Rodano - Magneti - Crescenzago - Telettra
- Vimercate Aprile 1975
Documento programmatico dei Comitati comunisti di fabbrica di Milano
Da «Linea di condotta», n. 1, Roma, Luglio-Ottobre 1975